Il commissario europeo Olli Rehn entra a piè pari nel dibattito sull’Imu in corso in Italia. Parlando a proposito di una possibile abolizione o parziale diminuzione dell’imposta sulla prima casa, ha rimarcato che “gli obiettivi di bilancio per l’Italia restano invariati”, aggiungendo che c’è “piena fiducia che il nuovo governo li rispetterà e lavorerà per facilitare l’abrogazione della procedura per deficit eccessivo”. Per il professor Claudio Borghi Aquilini, però, ancora una volta la Commissione europea si dimentica di fare i conti con l’economia reale.
Professore, che cosa non la convince?
Quando si parla di questi conti europei c’è qualcosa di profondamente sbagliato dal punto di vista del metodo. Attraverso il Fiscal compact e una serie di altri adempimenti, l’Italia si è vincolata a dei risultati che sono dati sempre dal rapporto deficit/Pil. Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, l’Italia si impegna a un controllo della spesa ex ante, senza sapere quali saranno gli incassi ex post.
Che cosa significa in soldoni?
Può accadere, per esempio, che si decida di non consentire neanche un centesimo di debito in più. Se però la conseguenza è un calo del Pil, si riproduce ugualmente un buco di bilancio. E’ quanto era avvenuto con il governo Monti.
Ora però Letta è pronto per una nuova fase…
Il problema resta lo stesso di quando c’era Monti. Lo Stato recepisce qualsiasi indicazione Ue, tagliando su tutte le voci, e così facendo è convinto di avere fatto bene. A seguito di questa manovra il Pil, però, si contrae, facendo sì che il rapporto debito/Pil, anziché rimanere invariato, aumenti dal 120% al 127%. La conseguenza è quindi stata la stessa che se il governo Monti si fosse dato alle spese folli, anche se in realtà è successo esattamente il contrario. A essere sbagliata è quindi l’impostazione a monte.
Quindi, secondo lei, un bilancio di previsione è un’operazione impossibile?
Dal momento che non si sa se determinate politiche portino alla crescita o alla decrescita, lo Stato può controllare soltanto l’aspetto relativo al deficit, ma non quello che riguarda il Pil. Con un disavanzo del 3%, si può prevedere un taglio delle spese di 45 miliardi. Peccato però che l’anno dopo il bilancio non sarà in pareggio, perché il taglio della spesa provoca una contrazione dell’economia e quindi minori incassi per le tasse.
Con quali conseguenze?
Se un politico si basa su regole puramente contabili, l’economia reale non gli darà il risultato sperato. La curva di Laffer afferma che alzando le tasse oltre una certa soglia il gettito diminuisce. E’ evidente, per esempio, che se portassi le tasse al 100% il ricavo sarebbe zero, perché a quel punto nessuno avrebbe più interesse a lavorare. E’ un paradosso, ma serve per spiegare che l’economia reale non è una banale somma matematica. Se, per esempio, con una pressione fiscale del 50% incasso 50, non è detto che alzandola al 75% incasserò 75, anzi potrebbe accadere che incassi 40. Uno dei grandi equivoci di questo tipo di impegni che si sono presi con l’Europa, è proprio che non tengono conto di tutti questi elementi.
Lei ritiene che si tratti di impegni che possono essere rinegoziati?
C’è un punto che non è stato spiegato, in quanto nessuno ha saputo dire che cosa accadrebbe se, proprio come è stato prospettato dal portavoce di Rehn, la Commissione Ue dicesse no alla rinegoziazione. Se, per esempio, imponesse delle sanzioni all’Italia, che cosa faremmo? C’è qualcuno che ha idea di quale possa essere il piano B, nel caso di diniego di tutte le nostre ambizioni da parte dell’Europa? A quel punto il nostro governo potrebbe insistere quanto vuole, ma senza una predisposizione da parte dell’interlocutore anche la persona più abile al negoziato non può fare nulla. Dal punto di vista dell’interesse nazionale è quindi una follia non avere un piano B.
(Pietro Vernizzi)