«Non escludo che si possa individuare un percorso, anche soltanto per una prima tappa, di riduzione del carico fiscale». Risponde così, alle 15:21, il presidente del Consiglio Mario Monti al parlamentare del Pdl Enrico La Loggia al termine della riunione dell’Intergruppo parlamentare sull’agenda urbana (alzi la mano chi ne conosceva l’esistenza…). Passano un paio d’ore, sufficienti per raccogliere la soddisfazione del presidente della Confindustria Giorgio Squinzi (“mi fa piacere – il carico fiscale sulle imprese è veramente devastante”), ma anche per capire l’effetto politico di una dichiarazione che cade a ciel sereno sia su Roma che su Bruxelles. E così, alle 18:37, arriva la precisazione: “Mai detto nulla su misure fiscali da adottare entro la fine della legislatura”. In realtà, spiega la presidenza del Consiglio, le cose sono andate così. La Loggia ha chiesto se fosse possibile individuare, già in questa legislatura, un percorso per ridurre le tasse. E Monti ha risposto così: “Individuare un percorso, anche per solo la prima tappa. Non lo escludo…”.
Insomma, tanto rumore per nulla. Come per la “disponibilità” a restare a Palazzo Chigi anche dopo il voto della primavera del 2013. Allora, l’equivoco era stato generato dalla volontà di rassicurare i Vip del Council of Foreign Relations con una dichiarazione generale, di principio, che nulla ha a che vedere con una strategia elettorale. Stavolta, il miraggio dell’inversione di tendenza della pressione fiscale, è ancor più remoto. Non sarà il “percorso” a restituire un briciolo di speranza ai contribuenti. Ogni segnale in materia, anzi, ha il sapore della presa in giro.
Il governo deve trovare, si sa, 26 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. I risultati della “spending review”, nel migliore dei casi, basteranno a tappare qualche buco provocato dalla recessione che ha inciso assai di più del previsto sui consumi (quindi anche sul gettito) e sui beni di investimento. Di fronte a questi numeri, il percorso non può che essere in salita.
Invece di inseguire l’agenda dei sogni, accontentiamoci delle poche cose che si possono fare con i capitali a disposizione. E che non potranno di sicuro spostare il Pil nemmeno di uno zero virgola nel breve, ma che possono indicare il “percorso” per un Paese meno anacronistico e arretrato. Interventi che, in tutta franchezza, non giustificano l’entusiasmo del ministro Corrado Passera (“Stavolta vi abbiamo stupito”), arrivato alla meta con un pacchetto di risultati assai più modesto delle ambizioni iniziali. Senza dimenticare che una parte del piano, quello dedicato alle semplificazioni, è stato derubricato a disegno di legge, con ben scarse possibilità di tagliare il traguardo dell’approvazione parlamentare entro la fine della legislatura.
Guai a sottovalutare l’impatto delle novità sulle start up, per cui è finalmente prevista l’arma dell’incentivo fiscale. O, ancor di più, le misure per detassare la produttività che il governo si accinge a varare entro pochi giorni. Ma l’esecutivo non ha i mezzi per tentare uno sprint. Monti, che lo sa bene, ha impostato una gara da mezzofondo. Anzi, una maratona che potrà premiare nel tempo il Paese purché sappia dosare le forze non infinite di cui dispone.
E’ con questo spirito che va valutata l’agenda digitale. Certo, non è chiaro il legame diretto tra lo “sviluppo” evocato dal pacchetto di misure varato ieri dal Consiglio dei ministri e l’introduzione del documento digitale unificato, la tessera elettronica in cui si unificheranno carta d’identità e libretto sanitario. Una riforma sacrosanta, per cui gli italiani avrebbero anche pagato volentieri e che invece ci verrà concessa gratis (tanto si pagherà da un’altra parte). Ma anche una riforma che arriva tardi, dopo numerose false partenze, scontri tra lobbies e rivalità tra le amministrazioni pubbliche. In Spagna, tanto per intenderci, la tessera unica è una realtà da non pochi anni. Meglio tardi che mai.
Val la pena ricordarlo quando inizia l’ultimo semestre della legislatura. Un arco di tempo in cui non è possibile chiedere all’esecutivo miracoli. Mario Monti, da buon accademico, sa che l’unica road map possibile passa dalla ripresa dei mercati finanziari; in queste settimane, come ha rilevato Mario Draghi, si è registrato un notevole afflusso di capitali nelle banche italiane. Si tratta di quei quattrini fuggiti a partire dall’estate 2011 per timore della rottura della zona euro o ancor di più del rischio che l’Italia fosse condannata a un inevitabile default.
Ora, passata la grande paura, l’Italia, che continua a rendere quasi quattro punti percentuali in più della Germania, torna a piacere. Se il fenomeno non verrà interrotto dalla crisi di Spagna o di Grecia, è lecito attendersi che tra qualche mese le banche italiane potranno riaprire i cordoni della borsa e aumentare gli impieghi senza temere nuove, improvvise e devastanti crisi di liquidità. Nel frattempo le aziende migliori, anche di piccole medie dimensioni, potranno approvvigionarsi sul mercato obbligazionario e ridurre, in parte, il gap che le separa dai concorrenti del Nord Europa.
E’ questo l’unico, ma non banale percorso possibile. Purché i fuochi d’artificio della politica casereccia non provochino smottamenti di terreno lungo la via Monti. Ma, a scanso di equivoci, è bene che il senatore a vita non scambi più le aule parlamentari o le conferenze stampa per una lezione alla Bocconi.