Nel mio ultimo articolo del 16 dicembre scorso, sempre su queste pagine, proprio alla vigilia del primo aumento dei tassi americani, dopo un periodo di quasi 9 anni, che sarebbe stato deciso nella serata di quello stesso giorno dal Fomc, capitanato da Janet Yellen, esprimevo l’auspicio che tale decisione fosse rimandata. Mi chiedevo, infatti: “E allora, perché mai, a fronte di questo semplificato quadro economico-finanziario che, come si è potuto vedere, non è dei più rosei, la Fed potrebbe, come oramai gran parte degli economisti scommette, iniziare ad aumentare i tassi di interesse?”; mi rispondevo: “La Fed ritengo che sia ben conscia che anche un modesto aumento dei tassi, anche di soli 25 punti base., potrebbe creare scossoni non legati all’aumento in se stesso, ma quanto alla modificata percezione di una inversione di tendenza nella politica monetaria americana. Non è importante il primo aumento, ma la percezione di quello che viene dopo!”. A osservare quello che è successo da allora sui mercati finanziari vien da dire che, purtroppo, le cose sono andate come temevo che andassero. Le borse, infatti, hanno accusato netti cali delle quotazioni. Ad esempio, la Borsa statunitense ha perso circa il 9%; la Borsa italiana il 21%; la volatilità è aumentata enormemente, con il Vix che è arrivato a toccare il valore di 32.
È ben strano come oggi, allo stesso modo che negli ultimi 20 anni, la storia si ripeta sempre uguale. Le decisioni della Banca centrale statunitense, infatti, hanno seguito un canone, quello keynesiano, che l’ha portata, fatalmente, a decisioni errate, sia in termini quantitativi che di tempistica. La Fed, purtroppo, segue alcuni indicatori che la portano inevitabilmente “fuori strada”, spingendola a inasprire la sua politica monetaria proprio nel momento sbagliato. Infatti, se solo avesse guardato le quotazioni dello Msci World si sarebbe resa conto che, anche solo dal punto di vista tecnico (mi rendo conto, ovviamente, che tale analisi non è, e non può essere, nella cassetta degli “attrezzi” di una Banca centrale), eravamo all’apice di un ciclo che dura all’incirca 7,5 anni. E che questo ciclo si è ripetuto per ben tre volte a cominciare dal 1992. Ora le quotazioni hanno rotto al ribasso il trend ascendente, per cui quello che ci si potrebbe aspettare è una probabile accelerazione al ribasso delle quotazioni.
Ma quello che vediamo nelle quotazioni del Msci World non è altro che l’espressione di quello che sta avvenendo nei mercati finanziari e nell’ambito economico. Come avvenuto nell’ultimo anno e mezzo, di fronte alle repentine contrazioni dei mercati, interviene a “rassicurarli”, sempre “casualmente”, una voce autorevole del board della Fed. Questa volta è toccato a Dudley, presidente della Fed di New York, dire che le condizioni globali finanziarie si sono considerevolmente contratte, e che, se tale andamento dovesse persistere fino a marzo, occorre che la Fed ne prenda attenta considerazione in vista del proseguimento della sua politica di restrizione monetaria, invertita a dicembre scorso dopo quasi nove anni. Ciò ha fermato la correzione e invertito repentinamente il corso del cambio euro/dollaro, spingendolo verso la soglia di 1,115 da 1,09. Un deprezzamento di oltre il 2%. Non male! Ma ciò che a noi interessa in questa situazione è che la stessa Fed, per il tramite di Dudley, il 3 febbraio scorso, ha inavvertitamente comunicato che per il secondo trimestre consecutivo (quindi il terzo e quarto del 2015) le condizioni di prestito si sono notevolmente ristrette, e questo, in un database importante della storia finanziaria statunitense, dai più attenti è considerato come un primo segnale di un molto probabile inizio di recessione.
Quindi la Fed, nonostante chiari e diffusi segnali negativi (si veda il mio precedente articolo per una semplificata enucleazione), prima comunica e attua la decisione di invertire la politica monetaria in senso restrittivo, crea una certa turbolenza nei mercati finanziari, e successivamente dà l’impressione di voler ritornare sui suoi passi. Tanto che ora è probabile che il passo programmato di incremento dei tassi possa subire una certa sospensione, forse per tutto il 2016. Verrebbe da dire: ma non poteva pensarci prima? Poiché, in caso contrario, cioè se persistesse con il passo programmato della sua politica restrittiva, il comportamento sarebbe quasi masochistico, in quanto gli effetti sarebbero veramente nefasti.
A dire il vero, dal 16 dicembre scorso, le condizioni dell’economia e dei mercati finanziari si sono ulteriormente degradate. Per quanto riguarda gli Usa, a tutto quanto già riportato nel mio precedente articolo, si deve aggiungere che anche l’Ism dei servizi, che sperimenta in genere un certo ritardo, ha cominciato ad accoppiarsi, in termini di tendenza al ribasso, all’Ism manifatturiero. Il primo, quello dei servizi, è ora ai livelli del 2013, mentre il secondo, quello manifatturiero, ha raggiunto valori che non si vedevano dal 2009. Gli ordini industriali, a loro volta, sono sempre più bassi, cioè a livelli da recessione; e il trasporto pesante su strada segue le stesse orme.
Ma quello che comincia veramente a preoccupare è il deteriorarsi del rischio di credito che può essere riscontrato da vari dati come, ad esempio, dall’incremento del valore dei Cds (si veda, ad esempio quelli su Deutsche Bank); dal valore delle obbligazioni delle società bancarie e finanziarie; dal continuo calo delle quotazioni delle banche giapponesi ed europee. Tale rischio si sta estendendo al mercato Usa (si veda lo Us Bank Risk). Tale aspetto è caratterizzato dal fatto di essere mondiale. Infatti, sotto la veste apparentemente tranquilla dei bilanci bancari, giacciono una montagna di crediti deteriorati.
A questo proposito, il malato numero uno è proprio la Cina, che con una politica dissennata, e che per qualche hanno ha fatto comodo ai Paesi occidentali, in termini di mitigazione della Grande Recessione, ha incrementato il credito di ben 21 trilioni di dollari in soli sette anni. Un tale incremento, in un così ristretto arco di tempo, non si era mai visto nella storia finanziaria mondiale. Il risultato è che ora una stima prudenziale parla di circa 5-6 trilioni di dollari di crediti deteriorati, di cui almeno 4,4 trilioni potrebbero essere delle vere e proprie perdite. E ciò farebbe sicuramente tremare il mondo. Ma, come detto, il caso è mondiale, per cui anche l’Europa ha la sua gatta da pelare, con circa 1 trilione di dollari di crediti deteriorati, di cui l’Italia ne annovera circa 350 miliardi di euro, cioè pressappoco il 20% dei crediti totali.
Gli indicatori, come detto, stanno già “flashando” continuamente. Le banche cominciano a postare notevoli perdite di bilancio (si veda Deutsche Bank o, ultima, la Credit Suisse che ne ha postato qualche giorno fa circa 5,8 miliardi di dollari nel solo quarto trimestre 2015).
Che fare? Da una parte la politica, che fa leva sulla storia finanziaria, direbbe di effettuare una bella pulizia, poi ricapitalizzare le banche e, quindi, ripartire. E ciò per non ripetere l’errore del Giappone dopo la bolla dell’immobiliare di 25 anni fa. Dall’altra, data la dimensione mondiale del problema, il tutto creerebbe problemi recessivi notevoli globali, con l’effetto negativo di impossibilità di attuare la fase successiva alla ripulitura, quella della ricapitalizzazione, in quanto verrebbero a mancare le risorse necessarie.
Come si vede, il problema è veramente grave. Ecco perché la prospettata soluzione italiana, quella della “bad bank”, alla fine, non ha sortito alcun effetto positivo, poiché, comunque, vi sarebbero perdite da contabilizzare, oltre quelle già potenzialmente accantonate nei conti economici. Infatti, le quotazioni bancarie continuano a tirar giù l’intero listino. In tutto questo scenario, le previsioni economiche vengono continuamente riviste progressivamente all’ingiù, come è stato il caso, in questi giorni, di quelle della Commissione europea, che ha rivisto al ribasso le stime di crescita europee proprio a causa di Germania, Francia e Italia.
Cosa dice il “nostro” Mario Draghi? Proprio, l’altro giorno, in una “lecture” alla Bundesbank a Francoforte egli ha detto: “Ci sono forze nell’economia globale oggi che, tutte assieme, stanno mantenendo (conspiring, ndr) bassa l’inflazione” e queste forze “potrebbero ritardare il ritorno dell’inflazione verso il nostro obiettivo”, ma “non ci sono motivi per cui dovrebbero portare a un tasso di inflazione sempre basso. Se ci sarà bisogno adotteremo ulteriori politiche espansive per sostenere la ripresa dell’economia”. Inoltre, “non ci possono essere dubbi sul fatto che, se decidessimo di adottare politiche ancora più accomodanti, il rischio di effetti collaterali non ci fermerebbe – hai poi detto il presidente della Bce -. Abbiamo sempre in mente la necessità di limitare le distorsioni causate dalle nostre politiche – ha sottolineato Draghi -, ma la priorità è l’obiettivo di stabilità dei prezzi».
La cosa interessante, a parer mio, non è tanto il fatto che la Bce possa utilizzare tutte le armi (spuntate, secondo me) della politica monetaria per controbilanciare il ciclo economico che, tanto lo si vede, non sono molto efficaci, quanto la consapevolezza che tale politica reca con sé notevoli “effetti collaterali”. Tale cenno potrebbe essere dovuto ai contrasti con i falchi tedeschi che, sempre a mio parere, sono molto più saggi nella amministrazione delle “armi” della politica monetaria, visto il trascorso burrascoso inflazionistico della Germania degli anni ’20. Tali “effetti collaterali”, in realtà, sono proprio la causa della situazione in cui ci troviamo in questo delicato frangente. È bene che Mario Draghi, come anche la Yellen o Kuroda, lo tenga a mente!