Il 19 e il 20 dicembre, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea si riuniscono a Bruxelles per l’ultima sessione di un anno, il 2013, in cui (nonostante ogni due settimane si sia inneggiato ai segnali di ripresa) il Pil dell’eurozona, il cuore dell’Ue, ha segnato una contrazione (-0,5%), nell’ultimo trimestre ha fatto marcia indietro la produzione industriale, il tasso di disoccupazione è oltre il 12% delle forze di lavoro, ecc.
L’ordine del giorno prevede tre temi principali: a) politica di sicurezza e di difesa comune; b) allargamento, migrazione ed energia; c) unione economica e monetaria e politica economica e sociale. In effetti, sui primi due ci si aspettano monologhi alterni tali da consentire a ciascun leader di affermare, nelle conferenze stampa con i giornalisti dei propri Stati, di dire che “si stanno facendo progressi” nelle direzioni indicate dalle rispettive nazioni. Solo il terzo è argomento sostanziale di discussione e di negoziato.
In effetti, anche in questo campo, occorre essere più circospetti: l’Ue ha praticamente “abdicato in materia economica e sociale” (le resta solo l’ancora dei parametri di Maastricht) e sta puntando tutto sull’unione bancaria. L’Economist in edicola titola efficacemente un suo editoriale Banking on a New Union che può essere inteso sia “scommettere sulla riuscita della trattativa sull’unione bancaria”, sia “puntare su una nuova Ue”.
Per come si presenta la situazione, un eventuale successo in materia di negoziato di unione bancaria (quale si configura adesso) potrebbe innescare l’esigenza di rimettere mano al più presto ai principali trattati europei (Maastricht, Lisbona) e a non facili procedure di ratifica in una fase in cui, a ragione o a torto, i sentimenti dell’elettorato europeo (le elezioni del Parlamento europeo sono alle porte) non sono proprio favorevoli a un’integrazione in direzione federalista.
La settimana scorsa, all’ultima riunione del Consiglio dei Ministri Economici e Finanziari (Ecofin), la Commissione europea ha presentato una bozza di accordo sull’unione bancaria di ben 166 pagine. Le dimensioni bastano da sole a dimostrare quanto le posizioni siano distanti. È verosimile che ci sia una nuova sessione dell’Ecofin il 17 o il 18 proprio per presentare uno schema ai Capi di Stato e di Governo. La trattativa sta continuando grazie ai mezzi posti a disposizione dalla telematica (che spesso sostituisce i Rappresentanti Permanenti e gli Ambasciatori).
Nella concezione originale, l’unione bancaria dovrebbe avere ha tre pilastri: un sistema di vigilanza uniforme incentrato sulla Bce, un metodo “europeo” per i fallimenti di banche, una garanzia uniforme per i depositi in conto corrente. Sul primo pilastro si è giunti a un accordo: la Bce ha varato un programma straordinario di assunzioni e, a Francoforte, sta costruendo una nuova torre. Il terzo punto è stato accantonato in attesa di un’intesa sul secondo. Il tentativo è di giungere a un accordo sui fallimenti bancari prima di Natale.
In effetti, al momento (la situazione però cambia di continuo), un compromesso pare possibile. La Germania rinuncerebbe all’opposizione netta alla creazione di un nuovo “fondo” europeo per ammorbidire l’urto dei fallimenti: ne verrebbe creato uno di 65 miliardi di euro, da finanziare progressivamente nell’arco di dieci anni. Non sarebbe, però, la Commissione a dire la parola finale su fallimenti e piani di ristrutturazione, ma un complesso sistema: un nuovo Consiglio espressione dei Governi e la Commissione (non è chiaro se la quest’ultima potrebbe agire unilateralmente o su mandato preventivo del nuovo Consiglio). Nell’arco dei dieci anni per il finanziamento e la creazione del nuovo fondo sarebbero le autorità nazionali di ciascun Stato membro a dover intervenire individualmente a carico dei rispettivi erari. In linea, poi, con il principio che il bail-in(pagamenti a carico degli amministratori e dei creditori) deve precedere il bail-out (intervento pubblico sia nazionale che europeo), l’uniformazione delle garanzie pubbliche sui depositi verrebbe accantonata per sempre.
Questo meccanismo potrebbe permettere di brindare all’unione bancaria prima della fine del 2013, ma è pieno di difetti. Il diavolo, come è noto, si nasconde nei dettagli, ma in questo caso ci ha proprio messo la coda. Sul primo punto, è difficile comprendere perché alcuni Stati (tra cui l’Italia) abbiano insistito tanto sul nuovo fondo (che secondo il diritto costituzionale tedesco avrebbe richiesto ratifica parlamentare a Berlino): si sarebbero semplicemente potuti ampliare i compiti del Meccanismo europeo di stabilità (il cosi detto “Fondo salva-Stati”) oppure utilizzare una rete di accordi tra le banche centrali simili agli accordi monetari europei del 1978-1999. Il marchingegno escogitato (sinora) è tanto macchinoso da diventare difficilmente operativo. E da fare avviluppare l’unione bancaria su stessa.
Grave poi la decisione di accantonare “sine die” l’uniformazione delle garanzie sui depositi: ciò pone il rischio dei bail-in su risparmiatori piccoli e medi e di causare fughe di risparmio verso gli Stati (e i sistemi bancari) più garantisti. Delle toppe che si stanno mettendo al Trattato di Maastricht questa sembra essere la peggiore. L’Italia presiederà il Consiglio Ue dal primo luglio 2014. Il Governo non faccia il Don Abbondio: prenda il coraggio a due mani perché l’eurozona venga rinegoziata da cima a fondo.