“La Bce farà la sua parte, anche usando strumenti non convenzionali”. Lo ha annunciato il governatore della Bce, Mario Draghi, intervenendo all’incontro annuale promosso dalla Banca Centrale di Kansas City a Jackson Hole, cui ha partecipato anche la presidente della Fed, Janet Yellen. Le conclusioni del summit sono state accolte con entusiasmo dalle Borse europee, anche se sono tanti i segnali che fanno capire che è presto per esultare. Non a caso il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, ha lanciato l’allarme: “La nostra esperienza insegna quanto la deflazione, anche se modesta, sia sempre deleteria”. Ne abbiamo parlato con Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Dopo l’incontro di Jackson Hole ci sono dei motivi per cui l’Europa può gioire, considerato anche che i dati dell’economia reale sono sempre negativi?
Il fatto positivo è che la Yellen ha una particolare attenzione per i problemi strutturali degli Usa, in particolare per la disoccupazione di lunga durata. La stessa scelta della Fed di legare il timing della sua politica monetaria a questi dati è un segnale incoraggiante per gli Usa e per tutti i Paesi che vi sono legati, inclusa l’area europea. L’attenzione della Yellen nei confronti dei problemi strutturali degli Stati Uniti, che pure esistono, non ha però un analogo corrispettivo a livello europeo.
Come valuta le risposte date finora da Draghi?
L’analisi di Draghi è molto argomentata e certamente solida sul piano quantitativo. Il governatore della Bce in questo caso non è però ancora riuscito a fare il bis di quella splendida dichiarazione di un anno fa con cui aveva rassicurato i mercati. A Draghi va però riconosciuta un’attenuante, e cioè che i problemi strutturali europei sono molto più gravi e spesso vanno al di là della sola politica monetaria.
Che cosa dovrebbe fare la Bce?
Sui giornali si è parlato di un impegno a realizzare un programma europeo di investimenti, e se questo avvenisse penso che sarebbe davvero un passo nella direzione giusta. Tuttavia bisogna capire i tempi, anche se una dichiarazione di questo genere è sicuramente da accogliere con speranza. Bisogna vedere come in concreto tutto questo si realizzerà. Se dovesse realizzarsi in tempi brevi, potrebbe cominciare lentamente una via d’uscita da questa situazione che rischia di essere di stagnazione, e che ricorda sempre di più il quadro generale del Giappone all’inizio degli anni ’90.
A proposito di Giappone, le autorità monetarie di Tokyo dall’inizio della crisi hanno attuato una politica monetaria espansiva, eppure i risultati tardano ad arrivare. L’Europa deve seguire l’esempio del Giappone?
Il Giappone è intervenuto tardi su una situazione di crisi strutturale profonda che ha radici prima del 1990. L’intervento della politica monetaria fiscale in Giappone è stato molto tardivo, in alcuni casi sbagliato, ed è un po’ quello che sta avvenendo in Europa. Il Giappone è un esempio preoccupante di quanto sia difficile, e in parte ignoto, uscire da una situazione di profonda stagnazione. Esempi storici di politiche che in tempo di pace portino un Paese fuori da una lunga stagnazione non ce ne sono.
Secondo lei, qual è il significato profondo della grave crisi che stiamo attraversando da ormai sette anni?
Un dato di fondo molto presente tanto in Giappone quanto negli Stati Uniti è la demografia. Quest’ultima è uno dei fattori che influenzano la dinamica del prodotto potenziale e la stessa domanda. A Jackson Hole non a caso vi è stata dedicata un’intera sessione. In Italia in particolare abbiamo una situazione demografica da brivido, perché nel giro di un decennio la generazione tra i 20 e i 39 anni è diminuita di almeno un milione di persone.
Eppure per le autorità economiche è difficile incidere a questo livello…
Proprio per questo a diventare centrale è una ripresa che coinvolga l’innovazione tecnologica, combinata a un’attenzione particolare su ventenni e trentenni, sul loro livello d’istruzione e sulla capacità di entrare con un reddito stabile nel mercato del lavoro senza per questo cacciarne fuori i padri. In Italia non vedo da nessuna parte una considerazione, che al contrario è molto diffusa negli Stati Uniti, sul fatto che la popolazione in età lavorativa sia in diminuzione. Eppure è proprio questo dato a influenzare il prodotto potenziale, che a sua volta condiziona il Pil, con ricadute sull’intera economia.
(Pietro Vernizzi)