Immaginiamoci la faccia che deve aver fatto Matteo Renzi, presidente del Consiglio, quando qualche giorno fa è stato costretto a dedicare almeno un’ora del suo prezioso tempo di premier alla Procura di Roma, per rispondervi come “persona informata dei fatti” sulle sue conversazioni con Carlo De Benedetti! “Caro Matteo!”, “Ciao Carlo!” e via dicendo…
È successo, e sarà sicuramente di lezione per il giovane ed evidentemente inesperto governante, quando all’inizio del gennaio 2015, mentre su tutti i giornali da tempo si parlava della ferma intenzione del governo Renzi di riformare le banche popolari ma anche delle resistenze opposte dalla categoria e della imponderabilità dei tempi, De Benedetti dava ordini a Intermonte, una della principali società di brokeraggio finanziario italiane, di investire 5 milioni di euro sui titoli di quel gruppo di banche. Poiché la Consob aveva rilevato investimenti “anomali” sui titoli del settore, aveva ordinato indagini a tappeto. Pochi giorni dopo, il 16 febbraio, la riforma veniva approvata e in una settimana l’Ingegnere si metteva in tasca 600 mila euro di plusvalenza. Ora le indagini hanno rivelato che nelle sue conversazioni con il broker De Benedetti, nel dare i suoi ordini di acquisto, aveva detto di essere sicuro del fatto suo per aver avuto certa conferma dell’imminente riforma da Bankitalia e da Palazzo Chigi.
Dev’essere molto chiaro: di insider trading – il reato sulla cui ipotesi indagano la Procura di Roma e in particolare il procuratore Pesci – non si troverà mai prova, almeno in questo caso. È chiaro che sapere dalla voce di uno dei protagonisti della riforma, Palazzo Chigi o (come aveva detto l’Ingegnere in un’altra delle sue telefonate con Gianluca Bolengo di Intermonte) qualcuno del vertice della Banca d’Italia, conforta anche il più astuto scommettitore di Borsa nell’investire, ma che da tempo i giornali definissero imminente la riforma è altrettanto innegabile e nessuno dimostrerà mai il nesso causale tra le conversazioni private dell’Ingegnere con Bankitalia e Palazzo Chigi e la sua decisione di comprare.
Però… però, una cosa è chiara, e non è reato, ma per certi versi è anche peggio: mai parlare con l’Ingegnere se si è al potere, mai confidargli segreti, perché se per caso fossero davvero riservati e delicati non solo egli usa servirsi delle informazioni acquisite, ma si vanta di averle acquisite da simili fonti, come fa chi ha piacere e forse bisogno di far sapere a tutti “chi è lui”. Agli psicanalisti la valutazione se quest’atteggiamento sia frutto di quella frustrazione perenne verso il “salotto buono” del Paese cui lui ha invano, per decenni, tentato di far parte, da quando emulava senza speranze di successo i tic e lo stile dell’Avvocato.
Sta di fatto che a parlare con l’Ingegnere, che ci si chiami Matteo o Ignazio, che si faccia il Premier o il governatore di Bankitalia, si rischia che poi lui lo spifferi al suo broker di Borsa per far sapere che ce l’ha più grosso, il potere.
Oh, sia detto per inciso: che le banche popolari – come categoria, e salva ognuna – avessero già all’epoca abbondantemente dimostrato di non essere state in grado di autoriformarsi, come i casi Vicentina e Veneto Banca e Banca Etruria hanno poi dimostrato, non ci piove; che indubbiamente la riforma si stata auspicata da Bankitalia, che peraltro non più tardi dell’ottobre 2014 aveva fatto brillantemente superare alla decottissima Vicentina gli stress-test (Gesù, in che mani siamo!) è altrettanto indubbio. Ma che quest’episodio riaccenda la luce ambigua e inquietante sulla qualità di quella riforma e gli interessi che la caldeggiavano, tra spifferate a De Benedetti e concertazione con quell’illuminato riformista del suo portafoglio personale che è Davide Serra, è ancora più sicuro.
Che peccato: lavorando così male, anche una riforma che poteva avere del giusto finisce imbrattata. Quando si dice le cattive compagnie.