Lo studio della Banca d’Italia sulle differenze del costo della vita tra le regioni settentrionali e quelle meridionali ha prodotto un supplemento estivo del dibattito sull’esigenza di un sistema contrattuale imperniato sulle differenziazioni salariali. Ovviamente la Lega ci si è buttata a pesce: se al Sud la vita è meno cara anche i salari devono essere più bassi. Oppure – che è poi la stessa cosa – i bravi lavoratori del Nord devono avere retribuzioni maggiorate del 16%. A queste considerazioni hanno replicato le personalità politiche del Sud evocando discriminazioni tutte da dimostrare.
Se in Italia vi fosse un po’ di sano realismo, la differenziazione retributiva i sindacati e le istituzioni meridionali farebbero bene non a respingerla, ma a rivendicarla. Basti pensare che nei giorni scorsi la Uil ha proposto di scambiare nelle regioni meridionali retribuzioni inferiori ai minimi con nuova occupazione regolare. Così, se la soluzione tecnica conosciuta come “zone salariali” rappresenta un capitolo chiuso della storia del Paese, la questione dei differenziali retributivi è un problema che si ripresenta, oggi e da tempo, in forme nuove e differenti. Non a caso a proporre il tema, da anni, è la Svimez (il centro studi sull’economia del Sud) nei suoi rapporti annuali, ribadendo la necessità che nel determinare i livelli retributivi si tenga conto anche della produttività del territorio.
Oggi è dimostrato che, paradossalmente, una contrattazione uniforme a livello nazionale favorisce il Sud, grazie al differenziale del costo della vita (rispetto a quello più elevato delle regioni settentrionali). Per uscire da questo cul de sac, che genera solo lavoro irregolare, occorre mettere in discussione il principio della inderogabilità (il suo superamento è all’ordine del giorno in tutta Europa) delle norme contrattuali in forza del quale due livelli di negoziazione continuano ad essere contemplati, da noi, in una prospettiva aggiuntiva e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In Germania, ad esempio, tale ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate nel 35% delle aziende e nel 22% degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi (è frequente la prassi delle retribuzioni agganciate agli utili).
Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni studiò – per incarico del primo Governo Prodi – il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte sia Massimo D’Antona che Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale. Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di “sostenere” una regolazione del lavoro sostanzialmente e forzatamente uniforme.
Opportunamente, nell’accordo quadro del 22 gennaio, al punto 16, è stata prevista la possibilità per le parti sociali di derogare di comune proposito dalle norme dei contratti nazionali attraverso il raggiungimento di specifiche intese rivolte a governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o a favorire lo sviluppo economico e occupazionale; tali intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi.
Ma che cosa erano poi queste “zone salariali” di cui tanto si parla, spesso soltanto per sentito dire? Rileggendo qualche pagina di storia si scopre che le c.d. zone salariali, (a cui è stata data la definizione di “gabbie”), non sono un’invenzione della Lega Nord, ma sono effettivamente esistite nell’ordinamento intersindacale successivo al secondo dopoguerra, quando erano le organizzazioni confederali a negoziare i minimi retributivi, in nome non solo di istanze ideologiche di classe che imponevano un’uniformità forzata delle retribuzioni, ma in conseguenza anche della complessiva debolezza dei sindacati di categoria. Inoltre, il prevalere del livello confederale rappresentava pure una sorta di antidoto nei confronti del modelli corporativi, imposti dal regime fascista ed incentrati sull’idea del contratto di categoria, proprio perché era questo l’ambito istituzionale in cui datori e lavoratori erano chiamati a concorrere e a contribuire al superiore interesse dello Stato.
Nel 1954 (il 12 giugno) venne stipulato l’accordo sul “conglobamento” retributivo, allo scopo di riordinare la struttura della retribuzione e inquadrare nella “paga base” una serie di voci salariali che si erano venute accavallando nel tempo. Tale accordo fu molto importante per quanto riguarda l’evoluzione degli assetti negoziali perché aprì la strada alla contrattazione di categoria. Le confederazioni non vennero private del tutto della competenza in materia salariale che però fu limitata alla definizione dei rapporti differenziali tra le differenti qualifiche (i c.d. parametri) e tra le 14 zone (in una logica decrescente da Nord a Sud) in cui venne diviso il territorio nazionale.
I nuovi minimi furono determinati secondo tale criterio, raggruppando i vari comparti industriali in tre gruppi, i quali però furono ben presto superati dalla contrattazione di categoria che condusse ogni branca industriale ad avere le proprie tabelle, organizzate nel rispetto dei rapporti differenziali per qualifiche e per territorio, come stabilito nell’accordo del 1954. Basti pensare che questo processo consentì ai metalmeccanici, nel 1956, di rinnovare il contratto dopo una “pausa” che durava dal 1948 (bisognerebbe meditare su questi avvenimenti!).
Poi, nel 1961, la differenziazione in 14 zone non sembrò ulteriormente giustificabile di fronte alle trasformazioni del Paese, della sua economia e del mercato del lavoro. Le zone furono dimezzate (accordo interconfederale 2 agosto 1961) e fu prevista una diminuzione dello scarto tra la prima e l’ultima dal 29% al 20%. Prima di quell’evento (il 16 luglio del 1960) era intervenuto l’accordo sulla parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici che in precedenza avevano dei trattamenti differenziati a scapito delle donne. Immediatamente prima dell’autunno caldo del 1969, tra la fine del 1968 e i primi mesi del 1968 furono stipulati – dapprima con l’Intersind-Asap, l’associazione rappresentativa delle aziende a partecipazione statale, poi con la Confindustria – accordi per l’abolizione delle zone e delle differenziazioni territoriali.
Da allora i minimi tabellari previsti dai contratti nazionali di categoria sono uniformi su tutto il territorio nazionale. Unificate le retribuzioni, restarono differenti gli standard dello sviluppo. Per ripristinare l’equilibrio le imprese meridionali si avvalsero degli sgravi fiscali e contributivi (a riduzione strutturale del costo del lavoro) a carico dell’intervento straordinario (la ex Cassa del Mezzogiorno). Quando, nei primi anni ’90 le regole europee resero impraticabili gli aiuti di Stato, la struttura produttiva del Sud restò nelle classiche “braghe di tela”, costretta a cercare riparo nell’economia sommersa, maledetta e combattuta a parole ma tollerata nei fatti.