Ha proprio ragione Maurizio Crozza: il nostro è il Paese delle meraviglie; qui succedono cose che gli umani, quelli normali, non riescono neppure a immaginare. Solo due settimane fa i giornali, grandi e meno grandi, ci hanno tediati con i soliti piagnistei perché un altro marchio del made in Italy, Pomellato, finiva in mani francesi. È un peccato, certamente si tratta di un nome di tutto rispetto, ma ha un fatturato appena sopra i 100 milioni di euro e non rappresenta un know how tecnologico senza il quale non possiamo andare avanti. Eppure eccoci tutti lì a stracciarci le vesti, a mugugnare contro i colonizzatori, i barbari francesi.
Invece zero proteste, neppure una lacrimuccia, e nemmeno un pensieroso alzarsi di un sopracciglio per quello che sta per succedere nei prossimi giorni quando un signore, Franco Bernabè, cercherà di vendersi le telecomunicazioni italiane ai cinesi. La storia è nota, ma vale la pena di ripercorrerla per sommi capi, tanto per ricordare come si è arrivati a questa follia nazionale, una macedonia andata a male dove stanno assieme politici di serie C, pseudocapitalisti famelici, manager inetti capaci solo di attribuirsi emolumenti immeritati.
Fino al 1997 il sistema delle telecomunicazioni italiane faceva capo alle partecipazioni statali, strana creatura abitata dai boiardi, sempre da tutti criticata ma che ora siamo costretti a rimpiangere, considerato chi è venuto dopo di loro. Nel 1997 all’Italia è capitato uno dei più seri guai della sua storia repubblicana: il governo di Romano Prodi. Questo fronzolo del Palazzo, per far bella figura con la stampa straniera e in particolare anglosassone, ha non venduto, ma svenduto una buona parte del patrimonio industriale italiano allora nelle mani dello Stato. Purtroppo della partita ha fatto parte anche Telecom Italia, che è andata ai privati, i quali l’hanno ceduta ad altri privati, e da questi passata ad altri ancora. Uno peggio dell’altro; uno meno capitalista dell’altro; nessuno disposto a mettere un soldo suo nell’impresa, ma sempre tutti lì a questuare prestiti dalle banche da scaricare poi, con brillanti operazioni finanziarie, sulla Telecom stessa.
Gli ultimi privati, l’anello terminale di questa pezzente catena di Sant’Antonio, sono i signori della Telco, la finanziaria che ha il pacchetto di maggioranza relativa di Telecom. Ne sono soci i bei nomi del capitalismo italiano (Generali, Mediobanca e Intesa) più la spagnola Telefonica. Questi, nel 2007, hanno affidato la società a Bernabè, prima come amministratore delegato e poi come presidente, sperando che riuscisse se non a farla uscire dai guai, almeno a tenerla a galla. L’impresa non è andata bene, Telecom Italia è oberata dai debiti e i suoi azionisti non vogliono e non possono metterci dei quattrini.
Quindi? Quindi si cerca di limitare i danni. La rete dovrebbe andare alla Cassa depositi e prestiti, quella zattera di salvataggio sempre tirata in ballo nei casi disperati, tanto per salvare almeno le apparenze di quell’italianità per la quale, a parole, ci si è tanto battuti. Il neoministro delle Attività produttive, Flavio Zanonato, ha buttato lì che forse si potrebbe pensare a una nuova nazionalizzazione, salvo smentire la sua affermazione un’ora dopo averla fatta (Bersani ha torto quando dice che i politici non sono tutti uguali).
Comunque, il fatto certo è che Telco sparirà, la Hutchinson Whampoa del miliardario cinese Li Ka Shing riuscirà nel suo progetto: fondere la sua controllata 3 Italia appunto con Telecom, comprare poi azioni dagli altri soci o sul mercato fino ad arrivare al 29,9% (tetto oltre il quale scatta l’obbligo di opa) e al controllo assoluto sull’azienda. Questo significa che, dopo i soliti discorsi di rito sulle straordinarie sinergie fra i due gruppi e la sacra fratellanza italo-cinese, farà spezzatino della preda, si terrà le parti migliori (soprattutto il Brasile), la quota di mercato in Italia, e butterà via il resto. Con le conseguenze, livelli occupazionali inclusi, che si possono immaginare. Se non andrà in porto l’operazione con Hutchinson, si farà avanti qualcun altro, come l’americana At&T o il messicano Carlos Slim. E la sorte sarà identica.
Nel 1997, prima del flagello Prodi, la Telecom Italia dei boiardi se la giocava da pari a pari con i grandi competitor europei. Pochi lustri di gestione privata l’hanno sommersa di debiti, annientata, fatta sparire dal mercato. È bene ricordare i nomi di questi privati, sedicenti capitalisti: la famiglia Agnelli (che guidò la prima privatizzazione, quella del nocciolo duro); Colaninno e la sua razza padana con la sponda politica di Massimo D’Alema; Tronchetti Provera che sognava di diventare il nuovo Avvocato. Assieme a loro i comprimari di sempre, compagni di distruzione di ricchezze: Mediobanca, Generali, Intesa e via rabbrividendo.
Hanno avuto una grande azienda, l’hanno usata per farci i loro giochi e l’hanno ridotta a un deserto. Alle spalle del Paese, degli azionisti, dei dipendenti. Nel Paese delle meraviglie noi facciamo così.