Sono passati quattro mesi dal giorno del referendum costituzionale, dove Matteo Renzi uscì e pezzi e si presentò in televisione con gli stranguglioni. In questi 120 giorni, si può dire che sia accaduto di tutto, ma nello stesso tempo, paradossalmente, che si sia mosso poco o niente sullo scenario italiano. Con un tran tran implacabile, la politica di casa nostra mastica i suoi tempi verso l’appuntamento elettorale (avvolto in una vaghezza inquietante) , senza minimamente preoccuparsi di confezionare una legge elettorale, tanto da suscitare l’irritazione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
C’è stata la sostituzione di Paolo Gentiloni a palazzo Chigi, a capo di un governo fotocopia; c’è stata una “piccola scissione”, così dicono, nel Pd; c’è un contesto europeo e internazionale da brividi; c’è una “piccola” manovra di qualche miliardo da aggiustare entro aprile e si prevede una drammatica manovra da preparare per fine anno, a novembre; ci sono gli implacabili e ormai noiosi dati dell’Istat e di altri istituti specializzati che aprono sempre discussioni infinite, che non convincono nessuno e che sfidano il principio di non contraddizione: secondo alcuni si nota una positiva inversione di tendenza, secondo altri si continua a restare a bagnomaria.
Poiché, nonostante le smemoratezze di molti, si è entrati nel decimo anno di grande crisi (è partita nel 2007 e siamo nel 2017, con una quantità imprecisata di titoli tossici che vagano per tutto il mondo), ci si aspetterebbe un grande dibattito sul modello di sviluppo che si è seguito in questi anni. In più, questo dibattito non dovrebbe prescindere dal fatto che siamo a meno di venti giorni dal primo turno delle elezioni francesi, che potrebbero “ribaltare” l’Europa, e siamo di fronte a una crisi epocale della sinistra in tutto il mondo. E in Italia c’è il concreto rischio che il primo partito diventi quello fondato da un comico professionista.
Eppure, nonostante tutto questo “terremoto”, la politica italiana sembra concentrata su un congresso inutile che si è svolto nel Partito democratico e sul ritorno del vecchio segretario, Matteo Renzi, al comando delle operazioni sia al “Nazareno”, sede del Pd, che a palazzo Chigi, casa del primo ministro. Dopo un breve periodo di “astinenza e penitenza”, Renzi ricompare oggi in grande stile su “Panorama”, intervistato da Andrea Marcenaro, dopo aver parlato su “ Rai 3” da Bianca Berlinguer. E dimostra la sua proverbiale aggressività e voglia di rivincita, che in fondo non ha mai nascosto. Tanto per cambiare, sul contenuto dell’intervista, nasce subito una polemica con Marcenaro.
Su “Panorama”, è attribuita a Renzi una frase che sarebbe significativa: “Mi pare evidente che stavolta me ne andrò davvero”, riferita a un’eventuale sconfitta alle primarie esterne del Pd. Apriti cielo! Appena Renzi conosce il testo dell’intervista, fa una nota durissima: “Con tutta l’amicizia per Andrea Marcenaro non ho mai detto ciò che Panorama ha riportato. Non l’ho detto e questa volta non l’ho nemmeno pensato. Gli ho spiegato a pranzo per un’ora perché non ho mollato e a questo punto non mollerò mai”. Malgrado il pranzo e l’amicizia, Marcenaro smentisce la smentita.
Ora, l’episodio potrebbe anche far parte della storia delle incomprensioni tra stampa e politica, ma, in una circostanza come questa, Renzi dimostra, direttamente o indirettamente, tutta la sua voglia di ritornare al centro della ribalta politica e di accusare gli altri, gli italiani, di non averlo capito. Con il consueto “garbo” si scaglia contro i “professoroni” dei giornali, da anche una pacca sulla testa a Mario Monti sulla flessibilità: dice di averla ottenuta lui con il suo governo, mentre Monti non c’entra nulla.
In tutto questo, si nota un’infantile voglia di rivincita, perché i voti delle “primarie interne” (come chiamare questa specialità italiana) sono andate benissimo e promettono bene per la “primarie esterne” (altra specialità italiana), dove vanno a votare anche i passanti che capitano vicino alle urne.
Insomma, la sensazione è che Renzi sia tornato più pimpante che mai perché ha battuto Michele Emiliano, “il Churchill del Salento”, e Andrea Orlando, il guardasigilli “per bene”, il “bravo ragazzo” che si guarda bene dal prendere posizioni nette sulla riforma della magistratura, sul ruolo dei pm, sul rapporto tra politica e giustizia, che ormai in Italia hanno la fiducia del 2 percento (la politica) e del 3 percento (la magistratura), stando alla rilevazione di un noto ricercatore.
Ma in fondo, tutto questo dimostrerebbe solo il “provincialismo irresponsabile” di una classe dirigente e di un personaggio che, a un certo punto, è stato battezzato come “la speranza” italiana. Il problema è invece più grave, se, considerando il contesto che abbiamo delineato, dopo quattro mesi dalla batosta sul referendum, non si fosse assistito al congresso forse più inutile che si è svolto in Italia da lungo tempo a questa parte. Certo, lo “scontro a tre” è stato tanto interessante sa apparire scontato fin dall’inizio. Ma i contenuti di questo congresso, quello che un tempo erano le “tesi” da discutere e su cui contarsi si potrebbero conoscere, anche a grandi linee? Ad esempio, dopo dieci anni di grande crisi, quale tipo di scelte di politica economica intende fare il Pd? E la sinistra del ventunesimo secolo che riferimenti ha e quali obiettivi si pone nell’immediato e a lunga scadenza? Si potrebbe sapere come si intende rovesciare la tendenza che nella grandi città, al centro si vota a sinistra e nei quartieri poveri si vota per protesta o a destra?
Lasciamo perdere gli slogan di chi è rimasto con Renzi o di chi è uscito. Lasciamo perdere le “metafore agricole”. A furia di contarsi e ricontarsi, di cantar vittoria o di abbattersi nello scoramento, si perde una storia che è stata ricca di contraddizioni, di errori, ma anche di tante cose positive. In questo modo si rischia solo la mediocrità e l’inutilità, che alla fine sarà ripagata con l’insofferenza e il fastidio.