Per la seconda volta in pochi mesi, il governo ha dovuto rinunciare al progetto di riforma dell’Autorità per l’energia, che ne avrebbe fatto venir meno l’indipendenza. Non c’è traccia, infatti, di questo provvedimento – ampiamente annunciato e addirittura anticipato dalla stampa di settore – nel pacchetto di emendamenti dell’esecutivo al ddl sviluppo, attualmente in discussione alla Camera. Tra le misure previste, alcune sono doverose, in particolare per quel che riguarda l’Agenzia di sicurezza nucleare (la cui istituzione è necessaria a porre le premesse per un ritorno all’atomo). Anche su questo, però, la situazione resta piuttosto magmatica, se bisogna dare retta al relatore, Enzo Raisi, che ha criticato la decisione di collocarla alle dipendenze del solo ministero dell’Ambiente.
Al di là di numerosi interventi di dettaglio, che certo non sono secondari o trascurabili, la vera cifra del progetto sta nella determinazione che “il governo… determina le priorità, le opere e gli investimenti strategici di interesse nazionale, compresi quelli relativi al fabbisogno energetico, da realizzare urgentemente per la crescita unitaria del sistema produttivo nazionale”. Si tratta di una svolta nel ruolo dell’esecutivo, che intende tornare protagonista della politica energetica, rispetto al passato recente, in cui – al di là dell’incentivazione delle fonti rinnovabili, imposta dal rispetto delle direttive comunitarie – la dimensione prevalente era quella di mercato. In sostanza, in prospettiva si vede un parziale ripensamento dell’orizzonte delle liberalizzazioni, che fino a ora hanno definito il comportamento delle imprese nel settore energetico (e in particolare in riferimento al mercato elettrico, mentre quello del gas ha continuato a gravitare nell’orbita pubblica a causa della posizione largamente dominante mantenuta dall’ex monopolista).
C’è, nel disegno del governo, un triplice rischio. In primo luogo il messaggio che le imprese captano è quello di fermarsi a guardare: poiché il contesto normativo è in evoluzione, meglio aspettare per capire come muoversi e non sprecare tempo e risorse. Secondariamente, viene messa a repentaglio la (relativa) coerenza del sistema: l’Italia ha scelto la via delle liberalizzazioni, senza finora riuscire a completare il percorso iniziato dieci anni fa. Uno stop, o un’inversione di rotta, rende inadeguati molti degli strumenti adottati finora, poiché alla logica economica si sovrappone quella politica. Terzo, aumenta l’incertezza, perché, anche ammesso che in un dato momento il governo in carica abbia una posizione chiara sui vari temi, al passaggio delle consegne a Palazzo Chigi potrebbero seguire dei contrordini clamorosi (come è accaduto diverse volte nel passato, su questi e altri temi). Questa è una prospettiva concreta e nociva per imprese i cui investimenti si ripagano nel lungo termine. Inoltre, viene da chiedersi se davvero la performance delle liberalizzazioni sia stata tanto deludente da giustificare un cambiamento di paradigma dopo un’esperienza ancora così breve. La risposta è, in verità, negativa, in quanto, nella misura in cui si è creata vera competizione, essa ha consentito enormi guadagni di efficienza rispetto alla situazione precedente. D’altro canto, si è ridotta l’intermediazione politica, che pure resta ingombrante.
La scelta di una via precisa è fondamentale proprio in vista del ripensamento della scelta nucleare. L’atomo è una tecnologia complessa e costosa, che esige prima di tutto certezze. Forse il governo dovrebbe concentrarsi su quello, anziché voler – per l’ennesima volta – riscoprire la ruota, facendola quadrata.