Dopo mesi di progressivi, costanti miglioramenti, le violenze in Iraq hanno registrato una nuova crescita. Il calo delle vittime giornaliere era giunto sino a una media di 20 morti al giorno a gennaio, cifra mai così bassa da due anni a questa parte, e calata del 70% da un anno a questa parte. Tra i motivi di questo miglioramento, l’accordo politico tra le fazioni sciite di Al Sadr e SCIRI, l’ingaggio da parte degli Stati Uniti di 150 milizie sunnite per combattere il terrorismo, i progressi delle forze armate irachene. A febbraio però il trend si è invertito: 26 morti al giorno. A marzo la media, in costante ascesa, tocca ora quota 39 vittime quotidiane. Un’escalation a prima vista improvvisa o inaspettata, ma che possiede radici profonde nell’ambito politico, giunto ad una fase di profonda incertezza a causa di un clima sempre più incandescente tra le varie forze politiche e all’interno di esse.
Lo scorso 13 febbraio, il Parlamento iracheno ha approvato un importante pacchetto di leggi, riguardanti temi su cui le fazioni del Paese da tempo tentavano di trovare un accordo.
La prima legge proclama un’amnistia che libererà migliaia di detenuti imprigionati per motivazioni politiche. La grande maggioranza di questi carcerati è sunnita, e proprio i sunniti sono i promotori di tale provvedimento.
La seconda legge approva, dopo serrate e aspre discussioni, il bilancio dell’anno. Tra le varie parti in causa, ha infine prevalso la linea curda, che conferma per il Governo regionale curdo la quota del 17% delle entrate. Sciiti e sunniti avevano tentato di abbassare la quota al 14%, ma per i curdi non vi erano assolutamente margini di trattativa. L’accordo è stato trovato nel momento in cui i curdi si sono dichiarati disponibili a riesaminare fra un anno la quota a loro assegnata.
La terza legge, promossa dalla fazione sciita nazionalista di Al Sadr, ha fissato per il primo ottobre nuove elezioni provinciali. Oltre a quest’evento, di grandissima importanza per il futuro a breve termine del Paese è una disposizione del provvedimento che ridefinisce completamente i rapporti tra centro e periferia, dando al Parlamento federale il potere di rimuovere un Governatore regionale. Una simile condizione crea quasi naturalmente nuovi attriti con la regione curda. Tra Governo centrale e Governo locale della regione vi sono grosse divergenze. La legge federale sul petrolio è bloccata dallo scorso luglio in Parlamento proprio per l’opposizione curda riguardante la distribuzione dei ricavi e l’utilizzo dei pozzi. Dallo scorso agosto inoltre il Governo del Kurdistan ha autonomamente firmato una ventina di contratti con diverse compagnie petrolifere, provocando l’irritazione di Baghdad, che ha ultimamente ribadito la volontà di annullare tutti questi accordi presi senza l’approvazione del Governo centrale. Il recente provvedimento complica dunque ulteriormente i rapporti, e a riprova di questo i curdi hanno tentano, sinora invano, di coinvolgere il Partito islamico iracheno (PIP), principale gruppo sunnita, nel presentare una mozione di sfiducia nei confronti del governo.
La situazione si è ulteriormente complicata quando il 29 febbraio il Consiglio di Presidenza, formato dal Presidente iracheno Talabani e dai vice Al Hashimi e Abdel Mahdi, ha posto il veto sull’ultima di queste leggi, giudicandola incostituzionale e rinviandola al Parlamento per porvi delle modifiche. In particolare, è Abdel Mahdi l’uomo che si oppone alle prossime elezioni. Il vicepresidente è esponente dello SCIRI, fazione sciita che fa del federalismo estremo la sua bandiera, opponendosi dunque ai nazionalisti di Al Sadr, promotori della legge. Entrando nello specifico, la volontà dello SCIRI va esattamente in direzione opposta all’ipotesi di nuove elezioni. Lo SCIRI è al potere nelle regioni del sud, ove punta ad un Governo federale autonomo simile a quello della regione del Kurdistan, anche per sfruttare le risorse economiche dell’area (il 60% del petrolio iracheno si trova in tali regioni). In caso di elezioni, però, difficilmente lo SCIRI riuscirebbe a mantenere il potere, dato l’elevato sostegno di cui gode attualmente Al Sadr in tali regioni. In settimana il Parlamento ha iniziato la riesamina del provvedimento. Certo ora la situazione politica è nuovamente giunta in una fase di profonda incertezza, innalzando di conseguenza il livello dello scontro. L’escalation di violenze di queste ultime settimane è figlio di questa situazione politica sempre più ingarbugliata.
Anche negli Stati Uniti aumenta la preoccupazione per gli ultimi eventi. Oltre all’aumento delle violenze, va registrato il malcontento di Washington per la visita a Baghdad di Ahmadinejad. Gli Usa temono un riavvicinamento di Iraq e Iran, certo possibile data la recente firma di dieci diversi accordi economici. Un simile scenario vedrebbe l’Iran sempre più protagonista della regione. Gli Stati Uniti a tal proposito ribadiscono il sostegno concreto del regime iraniano nel finanziare i terroristi che operano in territorio iracheno (in tal senso, si dice a Washington, va evidenziata la netta diminuzione degli attentati nei giorni in cui Ahmadinejad era a Baghdad). Oltre a questo, negli Usa si continua a discutere serratamene in merito all’eventuale riduzione delle truppe prevista nei mesi estivi. Attualmente in Iraq operano 162.000 soldati. Alla luce dei recenti eventi, la prevista riduzione di 22.000 unità nel mese di luglio potrebbe subire un rinvio, soprattutto se si svolgeranno le elezioni in ottobre, caso in cui andrebbe garantita la sicurezza delle operazioni di voto. Su questo tema vi sono negli Stati Uniti tra Governo ed esercito delle divergenze, il cui eco pubblico ha portato alle dimissioni dell’ammiraglio Fallon, capo del comando militare Usa in Iraq e Afghanistan. Gli Stati Uniti inoltre sono favorevoli a nuove elezioni,e guardano con sospetto il progetto dello SCIRI di una regione meridionale simile al Kurdistan. E proprio con i curdi va registrato un netto raffreddamento dei rapporti. Washington ha recentemente espresso pieno appoggio al governo Malichi, contestato dai curdi, e non si è opposta alle operazioni militare turche in Kurdistan, per non minare i buoni rapporti con Ankara, strategicamente fondamentale per gli interessi americani. Tale raffreddamento potrebbe mettere ulteriore benzina sul fuoco dell’escalation delle violenze irachene.
Il premier Al Malichi ha convocato per questi giorni un Conferenza di Unità Nazionale. Un tentativo apprezzabile di normalizzare la situazione, che lascia però poco spazio a esiti confortanti. Il clima si è surriscaldato, e difficilmente vi saranno miglioramenti a breve termine. Se il Parlamento confermerà le elezioni di ottobre, assisteremo ad uno scontro violento tra le diverse fazioni sciite, e ad un ulteriore crisi dei rapporti tra curdi e sciiti, con i primi che continueranno a premere per sfiduciare Al Malichi. Inoltre, gli Stati Uniti potrebbero rimandare il ritiro di alcuni contingenti per permettere il regolare svolgimento delle elezioni. Qualora le elezioni dovessero essere annullate, assisteremmo ad un clima se possibile ancora più incerto, e anche in tal caso è preventivabile un continuo aumento delle violenze nel Paese. Appare in ogni caso evidente come l’unità sciita sembri oramai definitivamente compromessa. La Conferenza di Unità Nazionale si muove quindi in acque decisamente agitate, e difficilmente potrà portare nel breve periodo al raggiungimento di accordi che frenino la nuova ondata di violenze irachene.