Dopo 10 anni, ieri la Bank of England ha alzato i tassi di interesse di un quarto di punto, portandoli dallo 0,25% allo 0,5% con un voto non unanime ma abbastanza netto di 7 a 2 all’interno del board. Di per sé, visto l’ambito temporale e l’inflazione reale del Regno Unito al 3%, nulla che faccia gridare allo scandalo. Il problema è il timing in cui va a inserirsi questa decisone, attesa appunto non da mesi ma da due lustri: il peggiore possibile, politicamente ed economicamente parlando. Guardate infatti questo grafico più sotto, ci mostra come il Regno Unito oggi stia patendo il peggior calo delle vendite retail dal 2009 a oggi: non certo un segnale bene augurante in vista della stagione natalizia, quella che di solito garantisce un boom dei consumi. E, quindi, del Pil.
Inoltre, il comparto delle vendite al dettaglio pesa per il 10% dell’occupazione in Gran Bretagna: e se il dato peggiorasse, magari acuito dalla crescita ulteriore del commercio on-line e partissero dei bei licenziamenti di massa nelle principali catene? E parlando di occupazione, ecco che proprio la stessa Bank of England deve dirci altro, oltre alla questione costo del denaro. La cifra di 75mila posti di lavoro a rischio a causa della Brexit, per quanto riguarda i settori bancario e assicurativo, fa parte di «una gamma plausibile di scenari». Lo ha dichiarato appunto il vice-governatore della Bank of England, Sam Woods, parlando alla House of Lords. Woods ha comunque specificato che la stima – riferita dalla BBC – non è stata formulata dalla Banca centrale britannica, bensì dagli analisti di Oliver Wyman, la cui previsione si muove in un range tra i 65mila e i 75mila posti a rischio.
Il vice governatore ha inoltre spiegato ai legislatori che è ragionevole attendere una perdita di 10mila posti nel settore finanziario nel “giorno uno” della Brexit, quando cioè il Regno Unito lascerà l’Unione europea nel marzo 2019. L’articolo firmato da Kamal Ahmed, economics editor della BBC, segnalava che la cifra farebbe riferimento allo scenario nel quale Regno Unito e Ue non arrivassero a un accordo specifico in merito ai servizi finanziari e che il numero effettivo potrebbe «cambiare a seconda dell’accordo commerciale post-Brexit» che verrà siglato dalle parti. Nello stesso servizio, Ahmed ha riferito che la stessa Bank of England avrebbe già chiesto alle Banche e ad altre istituzioni finanziarie di preparare piani d’emergenza in caso di hard Brexit.
Come sapete – e non da oggi – sono molto scettico riguardo l’ipotesi di reale attuazione della Brexit, visti i costi reali emersi a cose fatte e la possibile necessità di rimodulazione della stessa Ue in un’entità a due velocità che necessiterebbe di Londra come camera di compensazione fra Ue di serie A (a guida tedesca) e Usa. Possibile? Ufficialmente no. Ma se ne parla e già questo dice molto. Lo ha fatto la scorsa settimana il numero uno del Consiglio europeo, Donald Tusk, dicendo chiaramente che l’esito delle trattative è interamente in mano a Londra, la quale può decidere anche per un cambio di impostazione e per la rinuncia all’addio. Lo fatto ieri William Hague, ex ministro degli Esteri ed ex leader moderato del Partito Conservatore, ufficialmente per negare: «Un secondo referendum sulla Brexit sarebbe il peggior fattore di divisione, all’interno della società britannica, negli ultimi cento anni». E attenzione, perché Hague era schierato a favore del Remain nella consultazione del giugno 2016: però, «la ricerca di una ipotetica rivincita non vale il rischio di una nuova contesa destinata a essere inevitabilmente imbottita d’odio». Ma non basta. Per Hague, un eventuale secondo referendum vedrebbe più probabile una nuova vittoria del Leave e, soprattutto, porterebbe a una reazione infuriata di ampi settori dell’elettorato, se il governo cercasse di rimettere in discussione l’esito del primo quesito: «Non si può andare avanti e indietro, dobbiamo restare fermi nella decisione di lasciare l’Ue».
Stroncatura di ogni mia argomentazione? E se invece fosse il più classico degli stress test, ovvero far lanciare a qualcuno di autorevole e in maniera pubblica il proverbiale sasso nello stagno, tanto per vedere l’effetto che fa? Tanto più che sempre ieri l’influente think tank britannico The National Institute of Economic and Social Research (Niesr) ha pubblicato un report sulle conseguenze economiche del Brexit prima della sua attuazione e le evidenze parlano già oggi di una perdita netta di oltre 600 sterline per le famiglie britanniche rispetto a un anno fa, con un calo del reddito reale disponibile dell’1,1% rispetto al secondo trimestre di quest’anno, quando il dato era in salita. Il tutto, senza contare che il deprezzamento della sterlina (-17,5% dal novembre 2015) ha spinto verso l’alto i prezzi dell’import e spinto appunto l’inflazione da circa 0% di prima del referendum al 3% attuale, livello che ha fatto muovere la Bank of England, senza però tenere conto delle dinamiche reddituali e salariali.
Insomma, di colpo il Brexit non solo è un problema e un argomento di dibattito, ma anche una rogna. E quando saltano fuori le rogne, vanno risolte. In un modo o nell’altro. Ed ecco che allora, di colpo, la Commissione elettorale britannica ha aperto un fascicolo su ipotetiche irregolarità nei finanziamenti versati alla campagna pro Brexit in occasione del referendum del giugno 2016 dal magnate Arron Banks, ex donatore principe dell’Ukip all’epoca della leadership di Nigel Farage. L’indagine amministrativa riguarda le donazioni fatte da Banks in veste di presidente di Leave.Eu, macchina referendaria del partito euroscettico, e di fondatore della società Better for the Country Ltd. Stando a fonti della Commissione, ci sono «ragionevoli indizi per sospettare che qualche irregolarità sia stata commessa, nelle procedure attraverso cui Banks ha versato nominalmente 6 milioni di sterline a Leave.Eu e ulteriori 2,3 milioni sono stati raccolti da Better for the Country».
Scandalo in vista? Non serve, basta il sospetto da far finire sui giornali. Lo scandalo vero, con timing straordinario e contemporaneo a tutte queste baruffe attorno al Brexit, sta colpendo il governo, travolto dal dossier sulle molestie fatto circolare da assistenti parlamentari e che ha già reclamato una testa molto pesante, quella del ministro della Difesa, Michael Fallon, dimessosi mercoledì per aver toccato con troppa insistenza la gamba a una giornalista nel corso di un incontro stampa. Ieri la premier britannica Theresa May ha nominato il 41enne Gavin Williamson al posto di Fallon, tanto per mandare un segnale di forza dell’esecutivo: peccato che Williamson occupasse sì il ruolo di capogruppo dei Tories ai Comuni, ma non abbia alle spalle precedenti incarichi ministeriali, né particolari conoscenza nell’ambito militare. Come dire, devo tappare subito la casella per evitare che la stampa mi divori e lo faccio con un fedelissimo, vista l’aria che tira nel partito, anche se non ha alcuna competenza al riguardo.
E se i 10 deputati del Dup nordirlandese, fiutata l’aria, minacciassero crisi di governo? Comprarli, in realtà, non costerebbe molto. tanto più che Boris Johnson, ministro degli Esteri, ha conclamate mire di leadership del partito e di premiership, basti notare il carsico logoramento che sta ponendo in atto rispetto all’esecutivo. E se si finisse con un voto anticipato nuovamente, un nuovo contest che vedesse contro proprio Boris Johnson per i Tories e quel Jeremy Corbyn idolatrato da tutti per il Labour, attualmente saldamente avanti nei sondaggi? Si sa, Corbyn è stato più volte decisamente elusivo sull’argomento Brexit e potrebbe trasformarsi nella testa di ponte per giungere a ciò che la City e i poteri forti anelano: un ripensamento che tenga il Regno Unito nell’Ue almeno finché sia necessario. Ovvero, fin quando non sarà risolto il nodo del collaterale di controparte che unisce la City alle banche continentali in forma di contratti, derivati e meno, per triliardi di euro/sterline.
Sarà un caso, ma la Bank of England si muove, azzardando, proprio ora dopo 10 anni, il governo è sotto scacco per uno scandalo di molestie sessuali e attorno al Brexit il tema referendum-bis continua a emergere, seppur per essere smentito. Sicuri che non siamo in pieno lavorio sotterraneo? D’altronde, se il governo cadesse ora, si potrebbe optare per elezioni a primavera, arrivando a una sospensione delle trattative ufficiali sul Brexit a Bruxelles di almeno sei mesi: nel frattempo, molte cose potrebbero cambiare. E un po’ di trambusto economico potrebbe far spaventare a dovere i britannici, magari rendendo meno indigeribile l’ipotesi di un nuovo referendum. O di una sospensione a tempo della procedure di uscita ex articolo 50. Fantapolitica? Può essere, ma vi invito a leggere il libro Il golpe inglese, il quale mostra – documenti dei servizi britannici alla mano – come dal Secondo dopoguerra in poi Londra abbia di fatto controllato l’informazione italiana in chiave di tutela degli interessi di Sua Maestà (e della Nato) nel nostro Paese.
Un legame diretto, quasi simbiotico. Che, quando serve, può però anche colpire un governo britannico in difficoltà con accuse dall’estero. Tipo lo scoop di Repubblica ieri sul caso Regeni, ovvero le responsabilità di Cambridge nel ruolo avuto dal ricercatore italiano. Strano che esca solo ora, non contenendo nulla di nuovo, se non il fatto che la Procura di Roma si lamenti per l’ennesima volta dell’omertà britannica sull’accaduto e sull’ambiguo lavoro compiuto da Regeni in Egitto per conto dell’ateneo. Guarda quante coincidenze.