La costruzione dell’Unione bancaria, col recente accordo sul “Single Resolution Fund” (meccanismo unico europeo delle crisi bancarie) fa un altro significativo passo avanti; si tratta comunque di un accordo di massima, farraginoso nei meccanismi decisionali e, soprattutto, diluito su dieci anni per gli effetti finali! Ciò avviene dopo l’avvio della Vigilanza unificata per le prime 128 banche dell’eurozona, salutato con entusiasmo per l’avvio a soluzione del legame perverso “crisi del debito sovrano e situazioni bancarie”; man mano che si percepisce la portata delle singole fasi della complessa procedura avviata il mese scorso, vengono però a galla i problemi legati al possibile futuro esito degli stress test.
Ci si chiede infatti cosa potrà succedere alle banche italiane in funzione del peso che sarà assegnato al possesso di titoli di Stato, poiché è chiaro che dipenderà soprattutto da questa circostanza la richiesta o meno di un ulteriore adeguamento della dotazione patrimoniale. Procediamo con ordine e partiamo dal legame “perverso” che si può creare, in determinate situazioni, fra debito sovrano e banche o, se si preferisce, fra lo “spread” e i tassi bancari.
In primo luogo, se i timori di andamenti avversi del Paese emittente si sono radicati, le attese negative si propagano immediatamente allo spread e da questo ai tassi bancari, poiché questi emittenti (lo Stato e le banche) si trovano a competere sul medesimo mercato della raccolta del risparmio: la crescita del costo della provvista si trasmette automaticamente sul costo del credito. In secondo luogo, questi titoli sono utilizzati per le operazioni di rifinanziamento (con altre banche o verso la banca centrale): una riduzione del loro valore (conseguenza dell’aumento dello spread) limita l’accesso alla liquidità e dunque riduce l’ammontare delle risorse “spendibili” nei prestiti. In terzo luogo, la contrazione del valore del portafoglio implica un deterioramento dei bilanci bancari, con conseguenze intuibili, sia nell’immediato che in prospettiva, sui rispettivi conti economici.
In sintesi, le tensioni sul mercato dei titoli di Stato compromettono direttamente la capacità delle banche di fare prestiti e si ripercuotono dunque sul finanziamento delle imprese e sull’andamento del sistema economico. Va da sé che si crea una forte disparità fra i paesi esposti in maniera differente alla crisi del debito sovrano: in particolare, si determina un significativo divario fra le capacità di finanziamento (sia in termini di volumi che di costo) degli investimenti (e dei consumi), con un forte aggravio per i paesi strutturalmente più deboli.
Questi fenomeni sono ben noti e poiché determinano, fra l’altro, anche un serio indebolimento nei meccanismi di trasmissione della politica monetaria nell’eurozona, hanno già suggerito l’intervento straordinario da parte della Bce, inizialmente con acquisiti di titoli sul mercato secondario (Securities market program), successivamente con le operazioni straordinarie di rifinanziamento (Ltro, Long term refinancing operations) e da ultimo con la “minaccia” di interventi diretti sul mercato dei titoli di Stato (Odm, Operazioni definitive monetarie); a quest’ultimo strumento si è giunti in seguito allo scoppio del rischio del cosiddetto break-up dell’euro.
In determinate condizioni il legame debito pubblico-banche può dunque risultare perverso, trasformandosi in un circolo vizioso che, oltre a ripercuotersi sull’economia del Paese, compromette la stessa efficacia della politica monetaria decisa dalla banca centrale, mettendo anche in dubbio la sua capacità di perseguire il fine ultimo della stabilità monetaria. Bisogna dunque interrompere al più presto questo legame: nell’immediato con misure straordinarie di politica monetaria, come si è fatto con le operazioni richiamate e, in una prospettiva durevole, con la costruzione dell’Unione bancaria.
Veniamo adesso al possesso di titoli del debito pubblico italiano da parte delle nostre banche; dalle ultime rilevazioni risulta che le banche italiane posseggono circa un quinto del debito totale, pari a oltre 400 miliardi di euro, cifra che corrisponde a poco più del 10% del loro attivo totale; le banche più esposte sono ovviamente le più grandi (Intesa, Unicredit e Monte dei Paschi); altre banche però, fra le 15 sottoposte all’Asset quality review, pur avendone di meno, registrano un’esposizione più rilevante rispetto sia al totale dell’attivo, sia al patrimonio. Nei confronti con gli altri paesi, le banche italiane risultano essere quelle più esposte: le banche spagnole hanno circa il 9%, quelle tedesche il 3,2% e quelle francesi il 2,2%.
Anche se in contrazione, il possesso di titoli pubblici da parte delle nostre banche rimane comunque molto elevato. Ciò è frutto anche del carry trade realizzato in seguito alle citate operazioni di rifinanziamento (indebitarsi all’1% e investire sui titoli pubblici che rendono almeno due punti in più), facilitato inoltre dalle oggettive difficoltà di accrescere l’esposizione al rischio nei confronti delle imprese: non dimentichiamo che le “sofferenze” (i crediti non esigibili) e, più in generale, i cosiddetti non performing loans, sono cresciuti a dismisura nel nostro sistema, con conseguente riduzione della redditività bancaria e contrazione della capacità di esporsi a nuovi rischi (anche se, come ci dice il Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, “se si applicasse alle banche italiane la definizione di credito deteriorato adottata dalle primarie banche europee […] il tasso di copertura del sistema bancario italiano risulterebbe molto più alto e mostrerebbe un andamento crescente negli ultimi tre anni”).
Volendo a questo punto trarre le conclusioni mi pare evidente che non si possa neppure ipotizzare di poter far rivivere alle nostre banche l’esperienza dello stress test realizzato dall’Eba sul finire del 2011, quando, è bene ricordarlo, per il possesso di titoli dello Stato italiano, computati al valore di mercato in un periodo di forte deprezzamento causato da spread elevati, le nostre banche hanno dovuto realizzare cospicue ricapitalizzazioni. Al contempo, il possesso di titoli tossici o la forte esposizione sui derivati, caratteristica delle principali banche nordeuropee, non è stato neppure preso in considerazione.
Il problema del peso che sarà assegnato al possesso dei titoli pubblici in sede di stress riguarda pressoché esclusivamente le nostre banche: gli altri sistemi dei paesi cosiddetti periferici o perché poco esposti o perché già “sotto cura”, risultano sostanzialmente esenti. Appare dunque evidente che, per ragioni di efficacia della politica monetaria e dunque di perseguimento dei fini propri della Banca centrale europea; per la necessità di creare realmente un “livellamento del campo di gioco” in materia di vigilanza bancaria; per non penalizzare ancora gli stimoli a una crescita reale dell’economia, specie in quei paesi che proprio per la loro debolezza ne hanno più necessita e, da ultimo, tenuto conto che le nostre banche “hanno già dato”, siamo nelle condizioni di pretendere che in sede di stress test, il possesso dei titoli pubblici non risulti in alcun modo penalizzante.