Il futuro di Fiat in Italia sembra ormai segnato. Il gruppo automotive guidato da Sergio Marchionne è sempre più ai ferri corti con una classe politica e sindacale che ha fatto di tutto per bloccare lo sviluppo. Il risultato è evidente a tutti, dato che la produzione italiana potrebbe fermarsi sotto la soglia dei 500 mila veicoli l’anno, pari a un quarto di quanto prodotto in Spagna e meno anche della Repubblica Slovacca.
Le condizioni per fare business in Italia sono sempre più difficili, con un sistema della giustizia incerto e una burocrazia che rallenta ogni investimento. Non è un caso che in Italia non esistano produttori stranieri, perché nessun investimento estero nel settore dell’automotive è ormai sicuro. Al contrario in Spagna, la Seat, ormai tedesca da anni, è solo un piccolo produttore, ma le aziende tedesche, americane e quelle giapponesi hanno investito sviluppando un settore che è grande quattro volte quello italiano.
Da fonti molto vicine al management del gruppo Fiat si apprende che Sergio Marchionne e John Elkann hanno deciso: nel 2014 la Fiat lascerà l’Italia. Non si tratta soltanto di spostare la sede a Detroit o a Londra, ma anche di chiudere gli stabilimenti; quello di Mirafiori resterà attivo, da capire le sorti di Melfi (stanno rinnovando le linee per la nuova 500) e Pomigliano (la miglior fabbrica europea dell’auto); ma gli altri – vedi Cassino, Grugliasco e Termini Imerese (quest’ultimo dal 2011 non produce più nulla) – chiuderanno. E la Fiat andrà via dall’Italia.
La notizia, se confermata, avrebbe naturalmente del clamoroso: non che non se ne sia mai parlato, ma nella lettera di fine anno ai dipendenti del gruppo si legge testualmente che gli investimenti avviati dalla Fiat “proseguiranno nei mesi e negli anni a venire”.
La telenovela, nelle sue puntate, è cosa nota. Determinanti possono essere state, nelle decisioni assunte dai vertici del gruppo, la sentenza della Consulta che ha accolto il ricorso della Fiom e la mancata legge sulla rappresentanza che, a parte Marchionne e la sua azienda, nessuno ha naturalmente voluto. La Fiat, non sentendosi tutelata né dai recenti esecutivi, né dalla magistratura, voleva una legge sulla rappresentanza che facesse chiarezza sul fatto che chi non firma contratti aziendali non abbia poi voce in capitolo nella gestione dei medesimi. Il niet della politica – e naturalmente dei sindacati – è cosa nota: del resto le relazioni industriali sono affare privato, la politica, opportunamente, deve starne fuori.
Anche il sistema delle imprese e dell’industria ha poco colto l’occasione offerta dal caso Fiat, che di fatto in questi anni è stato portatore di istanze di modernità da cui l’economia e le relazioni industriali avrebbero potuto trarre vantaggio, come abbiamo più volte scritto su queste pagine. Ma per lo più Marchionne ha fatto questa battaglia da solo, tant’è che a partire dal 2012 Fiat è fuori da Confindustria. Si ricordino anche la nota di Della Valle contro i “furbetti cosmopoliti Fiat” e il sostegno di Cesare Romiti (incredibile ma vero!) alla Fiom come unico sindacato che si sia opposto a Torino.
A proposito di Fiom, Marchionne ha di recente incontrato Maurizio Landini e con lui sta trovando un accordo per smorzare il conflitto giudiziale, soprattutto dopo che le sue “tute blu” sono state riammesse in fabbrica per vie legali. È di qualche giorno fa tra l’altro la prima assemblea a Pomigliano d’Arco dei delegati Fiom, dopo tre anni di assenza dallo stabilimento Giambattista Vico.
Se i fatti confermeranno la decisione di Fiat di chiudere, l’Italia perderà gran parte della sua industria dell’automotive e il suo carico di indotto. In questo modo l’Italia per le sue poco moderne relazioni industriali, per il costo del lavoro, per le sue tasse e cuneo fiscale, per un quantomeno anomalo sistema giudiziario nel lavoro (sono 70 le cause aperte dalla Fiom contro la Fiat!) resta congegnata per deprimere l’impresa e la produttività.
Produttività significa anche efficienza: l’industria e l’impresa italiana non brillano certo per efficienza. A parte i tassi di assenteismo più alti d’Europa, sono molti i casi di coloro che dal sistema si fanno mantenere; questo a causa di una cultura del lavoro conflittuale ancora molto forte, che di fatto finisce con l’incentivare assenteismo e deresponsabilizzazione sulla base di vecchie e obsolete logiche e garanzie.
Naturalmente, nel momento in cui Fiat lascerà l’Italia, lo spazio che rimarrà vuoto nell’industria dell’auto per qualcuno certamente potrà risulterare appetibile: cosa ci dobbiamo aspettare dai colossi stranieri o da qualche outsider indigeno? Se il passato insegna qualcosa, anche gli stranieri difficilmente metteranno stabilimenti produttivi in Italia.
L’eventuale abbandono di Fiat, sarebbe una sconfitta per l’Italia, ma anche una conferma del tempo perso per non riformare il Paese.
In collaborazione con www.think-in.it