Quella di Armillei sulle (a suo dire) “nicchie centriste” mi pare un’analisi francamente del tutto astratta, sin dalle premesse. È perlomeno eccessiva l’enfasi attribuita alla scelta di un politico esperto, ma ancora volitivo, come Pierferdinando Casini il quale ritiene, a mio avviso erroneamente – ma è una valutazione più di cucina politica, quindi tattica, non culturale – che le nuove regole elettorali vanificherebbero oggi la costruzione di un nuovo centro, per il quale peraltro lui stesso si è speso fino a ieri. Da ciò non si può, insomma, dedurre una logica di sistema, è piuttosto un contraccolpo secondario generatosi nell’occasionalità di un passaggio istituzionale (a ritroso?) in cui un leader di vecchio corso con vari problemi personali a destra, e uno nuovo (che forse ne ha di altro tipo) a sinistra, si sono trovati dagli opposti lati in provvisoria sintonia per (ri)legittimarsi innanzitutto presso i propri, prima che con i reciproci avversari e il Paese.
Questa svolta personale del leader Udc non prova assolutamente che il sistema delle regole condizioni di necessità e in via univoca gli indirizzi di voto e quindi i flussi elettorali, così come in chiave storica non si può ridurre la fine della prima Repubblica al solo cambio delle regole che invece fu a sua volta dettato dal brusco mutamento di clima culturale prodottosi nel nostro Paese a seguito della fine della Guerra fredda e poi con Tangentopoli. Vale qui ricordare che il sistema non pienamente bipolare che si è generato nel 1994 in Italia ha comunque prodotto con l’affermazione di Berlusconi una stagione – a torto o a ragione – in cui il tema della delegittimazione del nemico politico è stato al centro del dibattito nazionale. Magnificare il maggioritario per se stesso, quale garanzia di alto tasso di democraticità condivisa è un errore storico – oltre che a mio avviso politico – come prova lo scontro ventennale dell’uomo di Arcore con le istituzioni.
Non si può non avvertire un certo odore di moralismo in una visione per la quale il sistema proporzionale sarebbe solo in grado di produrre il predominio di non meglio precisati “partiti centristi” dominati da altrettanto ignoti “gruppi di potere”: chi lo scrive sarebbe pertanto in grado di sostenere e soprattutto dimostrare che a tale schema si può ridurre tutta la storia della Democrazia cristiana? Il vecchio\nuovo Ppi degli anni Novanta – alla cui esclusività nominalistica alcuni si attestano ora nostalgicamente, come su di una linea Maginot, quando una nuova classe politica se ne vuole legittimamente dichiarare erede, visto che il popolarismo di don Sturzo è di per sé un valore universale – non fallì tanto per l’introduzione del premio di maggioranza, come si ostina a dire il nostro Armillei, ma perché non ci credette in primis e fino in fondo il suo fondatore Mino Martinazzoli, come da lui stesso ammesso in seguito nelle sue memorie, quale propria miopia politica “capitale”.
Quanto all’accusa di dirigismo, può esserci stato anche in certa leadership cattolica, ma la “massima mobilità” del sistema è figlia di un cambio di tempi, non di regole appiccicaticce. Contrapporre il modello delle settimane sociali (che proprio a Reggio Calabria, duole dirlo, ha segnato il passo in termini di qualità di riflessione e operatività ecclesiale) a quello di Todi mi pare di nuovo un esercizio intellettualistico. Come nella prima occasione si potrebbero comunque intravedere anche i presagi di chi vuole stabilire un potere di influenza e “negoziazione”, così misconoscere le istanze e pure qualche risultato positivo in termini di dialogo tra le varie anime del cattolicesimo negli incontri umbri è perlomeno riduttivo e frutto di una visione manichea della storia della Chiesa di questi ultimi anni.
Alla “debolissima cultura politica” dei movimenti e gruppi ecclesiali sentenziata da Armillei cosa mancherebbe oggi rispetto alla “alta qualità” del dibattito nei partiti laici? Almeno in termini sociali, di servizio, i cattolici organizzati credo abbiano ancora molto da insegnare alla schiera di poltronisti professionisti che a destra come a sinistra sostiene di aver rinnovato eticamente il parlamento della vituperata prima Repubblica.
Credo cioè che oggi si possa ancora effettivamente stabilire un consenso mettendoci la faccia, non per esercitare una rendita di potere ma per avanzare una proposta aperta a tutti, al di là dei marchi politico culturali, perché i valori (ebbene sì, usiamola questa parola tanto vituperata e aspramente combattuta da quel modello di cattolicesimo che a forza di dirsi adulto è forse invecchiato sin troppo…) che si indicano sono di tutti, e tendono progressivamente a riemergere, perlomeno come domanda di senso.
Il progetto dei Popolari per l’Italia (i mille rivoli sono tutti lì, cosa resta negli altri partiti dell’identità cattolica?) dimostra allora proprio il contrario, pure con le sue difficoltà di costruzione che non sono poi diverse da quelle che sopportarono le diverse correnti Dc nel comunque sostenere e attuare un modello di paese. Ora si potrà fare lo stesso senza necessità di un recinto confessionalizzato, perché una visione di mondo più umana e naturale di cui comunque la Chiesa ha sempre sostenuto la centralità, si affermerà da sola: basterebbe leggere il discorso di Giorgio Napolitano per la visita di papa Francesco al Parlamento italiano.
Sostenere che “non ha alcun senso in una società ampiamente pluralistica partire da un contenitore autoqualificato di ispirazione cristiana e privo di contenuti da aprire ad altri interlocutori” significa solo accettare l’idea che il cattolicesimo politico non serve più a nulla, e allora sarebbe più sincero dire chiaramente che non si ha niente a che vedere con quei valori, e non svolgere poi il ruolo nei cosiddetti partiti maggioritari di foglia di fico per attirare voti in quota cattolica (di cui pertanto implicitamente si riconosce il peso… ); questo modo di vedere le cose per chi scrive sul “Landino” e che si dichiara ancora legato a quell’esperienza di Fuci e “di crescita ecclesiale”, mi pare sinceramente davvero un po’ contradditorio.
Ovvero, lo dico con rispetto, a forza di ripetere che non bisogna dirsi cattolici, si è finiti, magari senza volerlo, per non esserlo più del tutto, beninteso in ambito pubblico, e ridursi, questo sì, a svolgere una mera funzione notabilare nel controllo delle reti locali di voto. In ultima analisi, il vero dirigismo non credo stia oggi nei gruppi e movimenti ecclesiali, è invece proprio quello di chi sostiene che le regole assunte da pochi debbano orientare necessariamente le opinioni di molti. Questo, piuttosto, mi pare veramente antipopolare, elitario, ultimamente non italiano.