“Si tratta di iniziative che sono doverosamente portate avanti da laici: saranno portate avanti da laici“. Con queste poche parole, pronunciate a margine dell’ultima assemblea episcopale dal presidente della Cei, cardinale Bagnasco, sembra essere stata definitivamente sventata l’eventualità di un referendum abrogativo sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
L’iniziativa era stata anticipata da parlamentari del centrodestra e da taluni della maggioranza nel corso di un’animata conferenza stampa, all’esito dell’umiliazione inflitta dal Governo al Parlamento con la proposizione della questione di fiducia sul ddl Cirinnà. Una fiducia che ha impedito al legislatore di emendare il testo di tutte quelle incongruenze destinate a minarne la funzionalità, se non proprio la legittimità costituzionale, provocate dalle forzate equiparazioni fra la disciplina delle unioni e quella del matrimonio, come pure dalle altrettanto forzate differenziazioni fra i due istituti (emblematico è il caso dello stralcio dell’obbligo di fedeltà dalla nuova disciplina, con la conseguente possibilità di bigamia). Non per nulla il ricorso governativo alla fiducia parlamentare è stato variamente contestato anche da convinti sostenitori dell’opportunità della legge.
Eppure, una tale referendum sarebbe stato una iattura per il Paese. Il ricorso al surplus ideologico che strutturalmente caratterizza ogni consultazione referendaria avrebbe inferto una nuova e insostenibile ferita nella convivenza nazionale. Non solamente avrebbe provocato il sorgere di nuove conflittualità in un corpo sociale talmente disgregato da essere paragonato dal Censis a una “massa pastosa di coriandoli”. Più ancora, avrebbe originato il tutto sulla scorta di ragioni che già la storia, prima ancora che il magistero degli ultimi pontefici, si è incaricata di smentire.
La questione non rimanda solamente alla dialettica ecclesiale mai sopita tra i cattolici della testimonianza e i cattolici dell’impegno, ovvero tra i fautori della testimonianza e coloro che, invece, insistono sull’impegno pubblico dei cristiani come argine al dilagare della rivoluzione antropologica; dialettica, questa, in realtà priva di fondamento. Come ha evidenziato Massimo Borghesi proprio su queste pagine, non c’è testimonianza cristiana che non si prolunghi, idealmente, anche sul terreno storico-politico, dal momento che «la politica è la forma più alta della carità» (Paolo VI).
Piuttosto, la questione rimanda al giudizio storico complessivo sotteso a una tale declinazione, la quale non può prescindere dall’insieme dei fattori in gioco. La domanda da porsi, in tal senso, probabilmente avrebbe dovuto essere la seguente: può ritenersi che una battaglia referendaria contro le unioni civili tra persone dello stesso sesso sia tale da contrastare, sia pure in parte, le cause (e non le conseguenze) della globale destabilizzazione etica contemporanea? In realtà non fu così (né avrebbe potuto esserlo!) nemmeno all’epoca del referendum sul divorzio. E anzi, fa specie che quella vicenda sia stata archiviata, da parte cattolica, senza rivisitarne adeguatamente i fattori costitutivi.
L’iniziativa referendaria sul divorzio fu doppiamente erronea. Essa fu sostenuta da autorevoli personalità del mondo cattolico, fra cui l’allora segretario politico della Dc, Amintore Fanfani, sulla scorta di una pluralità di istanze di tipo etico, religioso e antropologico, la cui manifestazione, tuttavia, era tutt’altro che pacifica e lineare sul duplice piano dell’opportunità politica e del merito storico.
Quanto all’opportunità politica, l’iniziativa sottovalutò l’impatto provocato sul tessuto popolare dal processo di secolarizzazione in corso. Esemplificativa è la radicale incomprensione dimostrata dai vertici del cattolicesimo nazionale nei riguardi delle denunce “corsare” di Pier Paolo Pasolini. Con sconcerto dei primi, il secondo da tempo lamentava in modo “poetico-letterario” gli effetti dell’affermazione dei nuovi valori “dell’ideologia edonistica del consumo”, consistenti nella trasformazione “antropologica” della società e nella conseguente “omologazione culturale” della popolazione (“Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”). I promotori, per contro, confidando nella forza elettorale dei partiti antidivorzisti e nella capacità di mobilitazione dell’associazionismo cattolico, consideravano concretamente ipotizzabile la vittoria referendaria. Sicché la formalizzazione dell’iniziativa non solo prevalse sugli opposti tentativi di mediazione variamente avviati da parte cattolica, laica e di sinistra (soprattutto da Andreotti, Bozzi e Berlinguer); vanificò altresì l’apertura dimostrata dallo stesso Paolo VI verso i tentativi di modifica della legge, al fine di scoraggiare “un eroismo dei cattolici italiani, pastoralmente inutile” (le parole furono rese note dall’allora segretario della Cei, Enrico Bartoletti).
Quanto al merito storico, del pari, l’iniziativa segnò una rigida politicizzazione della religione, una riaffermazione di quella teologia politica posta invece in crisi tanto dal Concilio, quanto dall’opera dei costituenti cattolici (La Pira, Moro e gli altri). Si trattò della riproposizione di un approccio oramai superato dagli eventi, tanto più considerato l’inquadramento del tema dell’indissolubilità del matrimonio fuori dal novero delle cosiddette leggi imperfette; nozione, quest’ultima, risalente ai tempi della patristica, con la quale si sottolineava l’esigenza di una necessaria distanza fra etica e diritto, al fine di assicurare al singolo una propria sfera morale, eventualmente distante o distinta da quella considerata doverosa. La legge umana, d’altronde — come evidenziato da Böckenförde alla luce di Tommaso d’Aquino — “viene data a una molteplicità di uomini e tra loro la maggior parte non è perfetta nella virtù. Pertanto la legge umana non vieta tutti i vizi dai quali si astengono le persone virtuose, ma solo i vizi più pesanti, dai quali può astenersi la maggior parte della massa, e in particolare quelli che si realizzano a danno di altri e senza il cui divieto la società umana non potrebbe conservarsi”.
E così, la tensione fra le contrapposte istanze richiamate contribuì prevedibilmente a far trascolorare l’iniziativa referendaria nel solito quadro conflittuale fra la Democrazia cristiana e i partiti d’opposizione; l’una, intesa come custode della morale tradizionale; gli altri, considerati come interpreti del costume progressista derivato dalle rivolte studentesche. Più che a favorire la coesione sociale, detta iniziativa valse ad accentuare in modo dirompente la già lacerante frattura politico-religiosa del Paese, con l’ulteriore conseguenza di irrigidire ulteriormente il sistema nazionale.
La competizione referendaria fu ben presto caricata del “plusvalore politico” connaturato all’istituto di democrazia diretta; l’oggetto del quesito fu travolto da più ampie considerazioni di ordine politico-governativo, accentuando la carica umorale sprigionata dall’impiego dello stesso.
Di qui l’inevitabile conclusione, con la schiacciante vittoria divorzista del 13 maggio 1974 (59,3% contrari all’abrogazione, 40,3% favorevoli), aggravata dalla circostanza segnalata da Andreotti, che la città di Roma, sede del papato, manifestò nel voto una propensione divorzista superiore alla media nazionale. Il settimanale l’Espresso (19 maggio 1974) poté salutare il nuovo corso con il significativo titolo “Cento poltrone da occupare subito”. Pasolini rilevò laconicamente: “La Chiesa è inutile al potere”.
E’ una tale inutilità che, specialmente negli ultimi lustri, la Chiesa ha voluto risolvere e contrastare. Per quale motivo, invece, i laici dovrebbero riassecondarla?