Il professor Pietro Ichino, attualmente esponente dell’opposizione parlamentare al Governo Berlusconi, ha bocciato senza appello l’idea di introdurre il quoziente famigliare nel sistema fiscale italiano (si veda l’intervista pubblicata su ilsussidiario.net lunedì 6 luglio 2009). Una riforma, questa, sostenuta in campagna elettorale da Silvio Berlusconi e oggi ferma ai box, in attesa (così viene sostenuto) che passi la lunga notte di crisi.
Le ragioni addotte da Ichino sono legate principalmente alla tendenza disincentivante che, a suo dire, la misura di riassetto fiscale avrebbe sull’occupazione femminile, a causa di una presunta agevolazione per le famiglie monoreddito che alcune simulazioni farebbero prevedere. Questa affermazione, seppur degna di attenzione, presenta però diversi problemi.
L’idea di Ichino è che le donne, se potessero realmente scegliere, deciderebbero inevitabilmente di lavorare, e dunque la legislazioni dovrebbe mettere dei paletti capaci di rendere possibile questo desiderio. Si tratta di un’affermazione piuttosto diffusa, che il giuslavorista condivide ad esempio con due personalità mainstream del panorama intellettuale italiano e internazionale come il politologo milanese Maurizio Ferrera (autore de “Il Fattore D”) e la sociologa torinese Chiara Saraceno.
La tesi della necessaria femminilizzazione del mercato del lavoro è stata infine ripresa ancora di recente da altri due autorevolissimi intellettuali della famiglia de la voce.info, come l’economista Daniela del Boca e il demografo Alessandro Rosina (“Famiglie sole”, Il Mulino). La tesi di Ichino appare in ogni caso fortemente connotata in senso ideologico, marcata come è da un’ipotesi sottostante (quella delle pari opportunità) che non fa i conti con quella componente di donne (piuttosto estesa, a giudicare anche dai dati di alcune ricerche empiriche) che vorrebbe dedicare più tempo all’educazione dei figli, riducendo il proprio lavoro full-time ad un part-time raramente concesso dalle aziende. Più corretto sarebbe anche in questo settore delle politiche pubbliche applicare il principio di sussidiarietà, mettendo le donne (e le famiglie) nella condizione di scegliere realmente tra cura dei figli (e prima ancora maternità) e fatiche lavorative.
Al di là delle opzioni di tipo politico-culturale (direttiva e orientata alle pari opportunità versus sussidiaria e orientata alla libera scelta), anche sul piano squisitamente tecnico le cose non sono così limpide come si potrebbe pensare leggendo le affermazioni di Ichino. A seconda delle metodologie di calcolo e dei pesi attribuiti al quoziente, cambia infatti sensibilmente la tipologia di famiglie che ne verrebbe beneficiata. Quel che è invece certo è che l’attuale sistema fiscale penalizza fortemente le famiglie monoreddito, a tutto favore di quelle in cui si lavora in due: e questo sistema non ha sicuramente portato a quel massiccio inserimento delle donne nel mercato del lavoro auspicato da Ichino, se è vero che l’Italia presenta il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa.
Un riequilibrio in favore delle famiglie monoreddito (e delle famiglie numerose, che sarebbero le vere beneficiate dall’intervento) rappresenta un elemento di sicura equità fiscale, le cui conseguenze in termini occupazionali devono essere dimostrati.
Quanto detto (e autorevolmente teorizzato ad esempio dal pro Rettore della Cattolica, Luigi Campiglio) trova conforto per altro sul piano empirico: vi sono infatti esempi internazionali che mostrano come il quoziente famigliare non determini necessariamente il risultato discriminatorio lamentato da Ichino.
Come ho più diffusamente argomentato nel mio recente “Politiche sociali e sussidiarietà” (ed. Lavoro), l’esempio francese dimostra in realtà esattamente la tesi opposta, ovvero che più quoziente famigliare fa bene alle donne, alle famiglie, al mercato del lavoro. Grazie a questo sistema fiscale, parte centrale di un più ampio disegno di sostegno alle famiglie, la Francia presenta infatti al tempo stesso un tasso di occupazione femminile vicino al 60% (superiore alla media europea e di oltre 10 punti più alto rispetto a quello italiano) e non ascrivibile in modo preponderante alla diffusione di contratti part-time.
La lezione francese cosa dimostra allora? Che le famiglie, messe realmente nella condizione di scegliere rispetto alla loro vita, sono capaci di trovare un equilibrio virtuoso tra figli e lavoro, senza costringere le donne a lavorare ma neppure senza costringerle necessariamente tra le quattro pareti domestiche. Questa è la vera lezione che bisognerebbe iniziare ad imparare. E possibilmente a importare nel nostro vecchio e anti-famigliare sistema di welfare.