Com’era logico attendersi, l’emersione delle conseguenze della crisi sui bilanci delle imprese e, soprattutto, sulla loro capacità di fare fronte ai pagamenti per i rimborsi dei prestiti ottenuti, ha scatenato la corsa alla denuncia degli “effetti perversi” di Basilea2 e, tanto per cambiare, della cinica volontà delle banche di fare fallire le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, più esposte all’alea congiunturale.
Da un lato è tutto un fiorire di richiami alla necessità di abolire, sospendere o quanto meno rivedere la normativa nota come Basilea2, nella ferma convinzione che stia generando conseguenze assai perniciose sulla sopravvivenza stessa delle imprese. Dall’altro c’è il tentativo di una difesa dell’operato delle banche, peraltro assai timida, costrette a muoversi fra l’imperativo di un’attenta valutazione del merito di credito e la continua minaccia ai loro conti economici, già duramente provati da una crisi epocale.
Come spesso accade, in medio stat veritas: non è necessario accanirsi contro Basilea2 ed è bene ricordare alle banche il loro core business, che consiste nel finanziare le imprese e sostenerle, basandosi su valutazioni corrette ed esaustive (cioè anche prospettiche!).
Andiamo con ordine e cerchiamo di capire intanto se ci sono gli effetti perversi di Basilea2 e in caso affermativo, come correggerli. Ricordiamo che l’impianto di Basilea2 riguarda l’imposizione di requisiti patrimoniali minimi per le banche, cioè la verifica dell’esistenza di un patrimonio (nella definizione valida per la Vigilanza, che distingue fra patrimonio di base-tier1 e – supplementare – tier2), commisurato al totale dei rischi assunti, derivanti dalle attività possedute (principalmente prestiti e titoli), in grado di assorbire le eventuali perdite (inattese) senza compromettere la stabilità delle banche stesse; in altri termini, si definisce una dotazione minima di patrimonio in grado di garantire la solvibilità bancaria (solvibilità=stabilità=funzionamento del sistema dei pagamenti, fulcro di ogni sistema economico non fondato sul baratto!).
In una prima versione (Basilea1 – dal nome della città che ospita il Comitato dei principali organi di Vigilanza, coincidenti, in genere, con le Banche Centrali) era stato fissato un rapporto minimo fra patrimonio e attività ponderate per un coefficiente di rischio, pari all’8%. Successivamente si è introdotto un metodo per il calcolo più accurato dei coefficienti di ponderazione dei vari rischi (distinguendo fra rischi di credito, di mercato e operativi) in modo tale da approssimare il più realisticamente possibile le perdite associabili a ogni investimento (Basilea2, appunto).
La novità principale del nuovo metodo riguarda l’introduzione dei rating, ovvero degli indicatori sintetici della solvibilità delle imprese affidate, che possono essere esterni (calcolati da agenzie specializzate quali Moody’s, Fitch, Standard & Poor’s) o interni se attribuiti dalle stesse banche con metodi più o meno complessi, che hanno, ad evidenza, il pregio di poter tenere conto anche dei rapporti con le singole realtà imprenditoriali. Va da sé che l’attribuzione del rating è così direttamente collegata al requisito patrimoniale: a rating peggiori (o in via di peggioramento) corrispondono più elevate dotazioni minime di patrimonio e viceversa.
La relazione diretta fra rating e requisiti patrimoniali evidenzia immediatamente il principale difetto di questo sistema, che consiste proprio nella cosiddetta pro ciclicità: la relazione osservata è cioè in grado di amplificare le fluttuazioni del ciclo economico. In un periodo di recessione, la situazione economica delle imprese tende a deteriorarsi, aumentano le insolvenze e i rating tendono a peggiorare; a questo peggioramento corrisponde un aumento dei requisiti minimi di dotazione patrimoniale della banca; se quest’ultima non è in grado di far fronte alle esigenze di nuovo patrimonio, per mantenere il coefficiente richiesto, finisce col ridurre le attività a rischio e, dunque, concede meno credito all’economia (credit crunch); l’impresa subisce un’ulteriore tensione finanziaria e si accentua la recessione. Al contrario, in una fase di espansione, la situazione delle imprese è tale per cui i rating migliorano, si riducono i requisiti patrimoniali delle banche, si generano maggiori disponibilità di credito che finiscono per amplificare la fase espansiva.
A rigore, va aggiunto che qualsiasi sistema di adeguatezza patrimoniale ha effetti pro ciclici: l’introduzione del rating aggiunge un elemento di amplificazione che è inoltre esaltato dalla nuova normativa contabile (IAS) imperniata sul principio del fair value per i prestiti e del mark to market per i titoli nel portafoglio di negoziazione: il peggioramento della congiuntura determina una riduzione di valore dell’attivo (svalutazioni nei portafogli di prestiti e titoli) e, dunque, una riduzione di patrimonio in grado di innescare il circuito “perverso” già detto.
Cosa fare dunque in una situazione di recessione grave come quella che stiamo vivendo? Si può ridurre l’effetto pro ciclico? È chiaro che la risposta è affermativa, tanto che le stesse autorità di vigilanza hanno promosso sia una rivisitazione nell’applicazione dei nuovi principi contabili sia un approfondimento nei requisiti patrimoniali che potrà dare luogo ad un’attenuazione dell’effetto perverso (Basilea3).
Per questi ultimi, la correzione non potrà che riguardare due aspetti: il primo è legato alla misurazione del rating, il secondo alla costituzione di riserve che consentano di superare la difficoltà di raccolta di capitali bancari addizionali. Per quel che riguarda la prima, occorre un sistema di misurazione che consenta di scontare nell’immediato (nella fase di peggioramento del rating) una previsione di miglioramento realistica, fondata sulle prospettive di medio periodo, per quelle imprese che soffrono soltanto per il ciclo avverso. In altri termini, deve essere possibile correggere il rating tenendo conto delle prospettive di un realistico miglioramento. Si badi, non si tratta soltanto della bravura della banca di saper fare delle analisi prospettiche proiettate sul medio periodo (cosa, peraltro, che va esercitata e promossa continuamente!), ma anche della disponibilità della vigilanza di incentivare e validare sistemi interni di misurazione meno “automatici” e più centrati sulle singole realtà imprenditoriali.
Il secondo aspetto è praticamente già operativo. Nella fase più acuta della crisi il Mef si è dichiarato disposto a intervenire per la capitalizzazione delle banche e sono stati introdotti i Tremonti-bond, proprio allo scopo, fra l’altro, di consentire il raggiungimento di requisiti patrimoniali tali da non penalizzare la concessione di credito alle imprese. Inoltre la nostra Banca Centrale, nella sua verifica dell’adeguatezza patrimoniale richiesta a tutte le banche, nell’ambito del più generale processo di controllo prudenziale noto col termine ICAAP (internal capital adequacy assessment process), ha praticamente imposto che ciascuna banca si doti di un “buffer” (cuscinetto) di patrimonio, tale da prevenire ipotesi di “incapienza regolamentare”.
Possiamo chiederci, a questo punto, se nel nostro paese siamo incorsi in una situazione di credit crunch, tenendo presente che così è definita dal FMI una situazione nella quale si verifica una riduzione del rapporto fra impieghi e Pil compresa tra lo 0,6 e l’1%: da indagini recenti risulta che non c’è stata alcuna riduzione; sembrerebbe anzi che l’intensità creditizia, ovvero il credito per unità di prodotto, nel corso del 2008 e nei primi mesi dell’anno in corso, abbia subito una decelerazione, ma non è mai scesa.
È sufficiente questo per dire che il tanto temuto effetto deleterio di Basilea2 non ha, di fatto, avuto alcuna conseguenza nel nostro sistema? Non possiamo dirlo con certezza. Di certo c’è il deterioramento della situazione finanziaria delle imprese, confermata dal forte aumento delle sofferenze bancarie. Di certo c’è la possibilità di attenuare la pro ciclicità dell’attuale normativa dei requisiti patrimoniali, senza però metterne in discussione la validità generale, dopo gli sforzi fatti per ammodernare i criteri di valutazione del merito creditizio. Di certo c’è la necessità di raccomandare alle nostre banche uno sforzo continuo nell’affinamento dell’analisi prospettica delle imprese. Di certo, infine, c’è una consapevolezza diffusa che le piccole e medie imprese rappresentano una ricchezza per l’intero paese e ogni sforzo deve essere compiuto per preservarne le capacità e la forza.