La staffetta tra le banche centrali, in qualche maniera già evocata a Jackson Hole, ha preso il via: la Bce ha lanciato il piano degli acquisti di Abs e di covered bonds, l'”antipasto” del Quantitative Easing: 500 miliardi o giù di lì di acquisti sui mercati. Meno di un QE, ma accontentiamoci. Anche Ben Bernanke, nel 2008, avviò la politica espansiva con un’operazione sui mortgages, i mutui immobiliari, che non sono poi così dissimili dagli Abs. Intanto, tra un mese, finirà dopo 17 mesi il QR 3 americano, il più lungo ed impegnativo della storia della finanza mondiale. I mercati già annusano il cambio di rotta scommettendo sul calo dell’euro ed il rialzo del dollaro, manovra complessa che, per giunta, avviene in un momento di tensioni incandescenti sul piano geopolitico.
E’ in questa cornice che si inserisce il complesso gioco ad incastro delle diplomazie, sia quella dei cannoni che del denaro. La Nato che stenta a trovare i quattrini necessari per sviluppare una forza di contenimento militare all’altezza degli eventi è figlia delle difficoltà di bilancio dell’eurozona, votata all’austerità, ma anche della volontà isolazionista dell’opinione pubblica americana che non vuole più sacrificare quattrini e soldati per ricoprire il ruolo di gendarme dell’economia globale. Svanisce così l’illusione che la globalizzazione, innescando più commerci e flussi di denaro, avrebbe portato alla fine della storia. Al contrario, la storia si è riaffacciata minacciosa, cogliendo di sorpresa Paesi che invecchiano e stentano a finanziare il welfare maturato nei trenta anni gloriosi del dopoguerra. Paesi che crescono poco o non crescono affatto, in crisi strutturale di domanda e costretti, sul lato dell’offerta, a confrontarsi con nuovi competitors in arrivo dall’Asia o dall’America Latina.
Le banche centrali, ammonisce Mario Draghi, possono fare molto, ma non tutto. Possono, come lui ha promesso nel 2012,”fare tutto il possibile per salvare l’euro e, credetemi, sarà sufficiente”. Possono guadagnare tempo, come lui è riuscito a fare nel corso degli ultimi due anni. Possono anche convincere i governi che “il rischio di fare è molto alto, ma il rischio di non fare è ben superiore”. Possono, in generale, anestetizzare le situazioni di crisi più acuta a suon di interventi che hanno addomesticato le emergenze più drammatiche: minacce di uso delle bombe atomiche tattiche in Ucraina, black out totale della Libia e carneficine orrende in Medio Oriente. Tragedie della storia che, potenza del denaro abbondante, hanno provocato variazioni minime nelle borse o nei listini delle materie prime. Ma, ahimè, non possono indurre la politica ad un salto di qualità che pure la nuova situazione, il new normal scaturito dalla lunga crisi, impone. E’ così negli Usa, ove la politica monetaria ha spesso compensato i vuoti del Parlamento, impegnato a sabotare le riforme di Obama. E’ così nella vecchia Europa, condannata ad una cocciuta austerità ma anche alla difesa di rendite di posizione che non rendono più.
Chissà, forse il copione (difficile crederlo) è destinato a cambiare. Forse al Consiglio Europeo dell’8 ottobre Matteo Renzi non si presenterà con un lenzuolo sui mille giorni o centinaia di riforme epocali bensì con una legge di riforma del mercato del lavoro da rendere efficace nel giro di pochi mesi (già ci sono le deleghe votate in Parlamento) sulla falsariga della Germania. E con un provvedimento analogo si possono far decollare i tagli sul fisco che devono precedere, e non seguire i tagli di spesa. Tutto può darsi, con l’aiuto della Provvidenza.
Nel frattempo, aspettiamo la manna che può piovere dal tetto dell’Eurotower, più che dal cielo, ovvero il Quantitative Easing che aiuta ma non fa miracoli. Certo, in questi 17 mesi l’economia Usa ha ripreso a correre, come segnalano gli ultimi dati. La disoccupazione, pur tra non poche ombre (i salari innanzitutto) volge verso il basso. E la fiducia delle famiglie risale. Ma Lawrence Summers che ha conteso alla Yellen la poltrona che fu di Bernanke, segnala che siamo entrati nell’era della secular stagnation.
In sostanza, la pioggia di denaro piovuta sui mercati è servita ad evitare il tracollo. Ma la tenda a ossigeno prolungata nel tempo non serve a curare il malato, anzi serve solo a stabilizzare una malattia cronica intralciando la guarigione: il denaro a tasso zero, frutto della zecca piuttosto che di risparmi reali, non rimette in moto gli investimenti ma, al contrario, favorisce i mercati finanziari rispetto all’economia reale. Se si guarda agli effetti del QE americano, si prende atto che la Borsa ha prodotto guadagni formidabili a vantaggio di un numero esiguo di super-ricchi, gli stessi che hanno approfittato della caduta dei prezzi immobiliari per fare ottimi affari. In compenso, la classe media sta assai peggio che nel 2007 ed il numero dei poveri è cresciuto. Colpa del QE? No, la Fed da sola non aveva alternative. Così come non ne avrà la Bce, “costretta” a impiegare buona parte delle sue energie per sostenere le banche nella speranza che queste ultime a loro volta girino un po’ di quattrini ad imprese che per ora hanno ben poca di investire.
Per cambiar rotta occorre una svolta “forte” e dolorosa. L’Italia, per limitarci al nostro Paese, può cavarsela solo aumentando la sua competitività (infima). Per ottenere il risultato due sono le vie: salari più bassi oppure più investimenti per aumentare l’efficienza in un primo momento a scapito dell’occupazione. Meglio la seconda via purché, al post degli attuali ammortizzatori, arrivi una rete in grado di garantire un reddito minimo, magari a fronte di minijob o formazione (vera). Inutile illudersi che il bazooka di Draghi possa bastare.