Volete davvero sapere qual è lo stato di salute dell’economia americana, intesa come correlazione tra mercato azionario e obbligazionario (finanza) e fondamentali macro (la cosiddetta “Main street”)? Eccolo, ce lo mostra il primo grafico a fondo pagina meglio di mille mie parole: sembra che la “Bullard call”, ovvero l’ipotesi avanzata dal numero uno della Fed di St. Louis di un possibile quarto ciclo di Qe non abbia mai perso di vigore, anzi, nonostante i continui stop-and-go sul rialzo dei tassi di interesse. A fronte di dati macro e previsioni del Pil per il primo trimestre che stanno letteralmente schiantandosi, le equities proseguono invece la loro marcia trionfale: c’è una sola parola d’ordine nei dintorni di Wall Street, “comprare”, tutto e a qualsiasi prezzo ormai.
Meraviglioso, il mondo che ogni investitore vorrebbe grazie ai soldi della Fed. Ma come vi ho già detto in passato, questa esuberanza sugli indici è data sostanzialmente da un fattore: i buybacks azionari delle grandi corporations, le quali non solo stanno spendendo tutti i loro profitti in riacquisto di titoli propri, ma ormai pesano per il 20% medio degli acquisti giornalieri nella Borsa statunitense, come confermato da una recente rilevazione di Goldman Sachs. Peccato che ora la crisi cominci a mordere di nuovo e, a partire dai colossi del settore energetico, il taglio netto degli investimenti (capex) si sta cominciando a sostanziare anche nel rallentamento, quando non nella fine, dei buybacks, il principale supporto dei corsi rialzisti: e vale non solo negli Usa ma anche in Europa, con Eni in testa.
Ma c’è di più, perché le grandi banche statunitensi, come JP Morgan e Citigroup, stanno andando oltre, dando vita a quello che in gergo finanziario viene definito un “left-to-right accounting”. Di cosa si tratti, è presto detto: avendo ottenuto il tacito via libera da parte della Fed per poter aumentare i propri buybacks e i propri dividendi nell’anno in corso, il grandi istituti stanno emettendo azioni privilegiate come non ci fosse un domani, ovvero titoli che pagano dividendi regolari e molto alti, di fatto una sorta di obbligazione per gli investitori, mentre per i regolatori si tratta di fatto di un cuscinetto contro potenziali perdite future. In parole povere, le banche prendono soldi da un gruppo di investitori e li girano a un altro, con un costo aggiuntivo per un motivo semplice: utilizzare l’emissione dei titoli privilegiati per pagare i dividendi delle azioni comuni e finanziare i buybacks, tipico sintomo di quello che viene definito un “sistema bancario zombie”, stando alla definizione che di esso ha dato David Hendler, ricercatore indipendente alla Viola Risk Advisor, a detta del quale «le banche dovrebbero costruire capitale dal prestito normale e poi fare trading sui profitti». Ma si sa, il momento è di quelli che fanno sbavare come il cane di Pavlov, soldi facili garantiti ancora per un po’ dalla liquidità rimasta nel sistema dal Qe3 e dall’aspettativa di un rialzo dei tassi che si allontana ogni giorno di più, come vi ho spiegato nel mio articolo di ieri.
Ma si sa, certe verità sono scomode da raccontare, per il semplice fatto che ti pongono di fronte a una domanda: e se qualcosa dovesse cominciare ad andare storto, quali sarebbero le conseguenze? Meglio quindi sposare la vulgata della ripresa Usa ben sostenuta dall’economia grazie al governo Obama, la stessa che lunedì sera a “PiazzaPulita” il corrispondente da New York de La Repubblica, Federico Rampini, ha ribadito quando ha ricordato come negli ultimi cinque, sei anni di ripartenza a stelle e strisce siano stati creati 15 milioni di posti di lavoro, grazie anche alla grande flessibilità del mercato del lavoro statunitense. Ora, come vedete dal secondo grafico, la gran parte – se non la quasi totalità – dei 10 milioni di lavori creati da quando è iniziata la crisi sono legati al comparto energetico, nella fattispecie allo shale oil e gas, quello che vi ho più volte dimostrato essere nulla più che l’esempio classico di mal-investmente da ciclo economico austriaco, visto che aziende piccole e medio piccole si sono lanciate in progetti per loro faraonici grazie ai soldi facili della Fed, emettendo per finanziarsi ulteriormente bond ad alto rendimento che già oggi non riescono a onorare, nemmeno nella prima scadenza degli interessi.
Già, perché lo schianto al ribasso del prezzo del petrolio ha tramutato quel boom in un bust, con il tasso di senza lavoro nel comparto energia in continua crescita (salvo le dimenticanze del Bureau of Labor Statistics nel computo totale di cui abbiamo più volte parlato) e la realtà Usa che ci mostra un settore manifatturiero, quello che ha fatto grande gli Usa dagli anni Cinquanta con il mito della fabbrica, a picco, mentre il grosso della nuova occupazione dell’era Obama è garantito da ciò che ci mostra il grafico a fondo pagina, ovvero il fatto che nello scorso mese di febbraio l’America ha vissuto il periodo di maggiore assunzione di camerieri e baristi dall’agosto 2013, esattamente 58.700 nuovi assunti in una delle categorie a più basso salario, il massimo da diciotto mesi, quando si registrarono addirittura +72mila unità. Ora, nulla da dire contro queste due degnissime e necessarie categorie di lavoratori, ma basare i presupposti di una solida ripresa sul boom di una professione a basso reddito, bassa tutela e grande flessibilità in uscita non pare un qualcosa da festeggiare con tappi di champagne che partono come la notte di Capodanno, visto che un tempo si assumevano a tempo determinato lavoratori nelle acciaierie della Pennsylvania e nella fabbrica di automobili del Mid-West. Ma tant’è, a Rampini e a Repubblica questa America piace, piace tantissimo: la cosa, non so perché, non mi stupisce più di tanto, anche soltanto pensando a chi è l’editore di quel giornale.
Ma come funziona questa America finanziarizzata e guidata dalla politica della sua Banca centrale? Di più, come funziona di fatto il mondo equities e obbligazionario in questo contesto distorsivo che consente di spacciare bugie a piene mani sul reale stato di salute dell’economia? In parte ve l’ho già spiegato con il circolo vizioso dei buybacks, ma non basta, perché l’intero sistema finanziario si basa di fatto su una dinamica circolare che spinge le bolle già formate sul mercato in modalità ipercinetica, visto che l’aumento continuo dei prezzi azionari ha l’effetto di alterare l’allocazione di assets degli investitori, sconnettendo le dinamiche tra equities e flusso di denaro che affluisce nei fondi obbligazionari. Se infatti la clientela retail rimane un grande acquirente dei bond funs rispetto agli equity funds, con un afflusso di denaro di 73 miliardi di dollari contro 47 miliardi, questo pattern si è registrato senza soste dal 2009 a oggi, fatta salva la “grande rotazione” del 2013.
Questa logica è meramente speculativa, visto che il calo dei rendimenti obbligazionari (e quindi l’aumento del loro prezzo) ha garantito forti capital gains negli ultimi sette anni, ma c’è un’altra ragione che ha portato gli investitori a comprare bond funds, ovvero proprio il forte apprezzamento delle equities negli anni recenti. Il prezzo dei titoli negli Usa negli ultimi tre anni è salito del 50%, contro il 30% a livello globale e questo ha di fatto tramutato gli investitori in soggetti overweight sulle equities rispetto a bonds, questo anche se nel suddetto periodo di tempo hanno comprato più bond funds che equities funds. Basti vedere il dato dello US Flow of Funds relativo al quarto trimestre del 2014 reso noto la scorsa settimana: la detenzioni di equities per il cittadino Usa medio era al 35% a fine anno, sei punti percentuali sopra il livello di tre anni fa e sopra il picco precedente del 2007. In parole povere, il cittadino statunitense è palesemente overweight nella sua esposizione ai titoli azionari in continuo apprezzamento, quindi compra in continuazione bond per evitare che quella esposizione diventi ancora più estrema. Allo stesso modo, i fondi pensione e le assicurazioni Usa sono overweight su titoli e underweight su bonds e questo non fa altro che incentivare ancora di più i loro acquisti obbligazionari al fine di evitare che il bilanciamento del reddito fisso del loro investimenti cali troppo in virtù del continuo aumento del valore delle equities.
Contestualmente, la maggior parte dell’aumento dell’allocazione di titoli è dovuta proprio all’apprezzamento del loro valore: vista la limitatezza di emissioni di nuovi titoli rispetto al flottante in circolazione, il mondo intero non può che aumentare le sue detenzioni attraverso l’aumento del loro prezzo: non a caso, a livello globale la detenzioni ponderata di equities è superiore a quella di bond, un netto contrasto rispetto al periodo 2008-2012, quando quella correlazione era invertita per la maggior parte del tempo. A oggi, la percentuale di bond è al di sotto della media a 25 anni, mentre quella equities è su del 2% rispetto alla media storica.
Bene, cosa ci dice tutto questo? Semplice, le Banche centrali hanno abbassato i tassi di interesse in area zero e questo ha incoraggiato le aziende a prendere in prestito denaro e spingere gli investitori verso assets più a rischio: più il rendimento cala, più l’investitore diventa nervoso, più le aziende emettono debito. Quindi, le compagnie invece di investire in capex per il loro business, hanno incanalato il denaro verso propri titoli attraverso i buybacks, portando in alto il prezzo e distorcendo l’allocazione di assets di quegli investitori che fino allora avevano comprato solo i loro bonds. Ironicamente, le aziende in modalità di re-leverging che hanno utilizzato l’ingegneria finanziaria per pompare al rialzo i prezzi dei loro titoli di fatto hanno preso due piccioni con una fava, inflazionando il valore della loro equity, ma garantendosi contemporaneamente più domanda per il proprio debito da emettere. Nel frattempo, le Banche centrali di tutto il mondo hanno cominciato a comprare Etf e presto potrebbero comprare titoli azionari individuali, un modo per aumentare ancora di più il prezzo delle equities, creando in contemporanea domanda per il debito corporate, le cui emissioni servono per finanziare nient’altro che i buybacks azionari, ulteriore sostegno ai corsi rialzisti di indici e prezzi e così via all’infinito. Insomma, la macchina della bolla perenne di Stato è ora completa.
È questa l’America in ripresa che piace tanto a Federico Rampini e a La Repubblica, la narrativa che ci viene spacciata a piene mani su giornali, tg e talk-show e che dobbiamo accettare senza porci domande, né guardare alla realtà. Vi pare un caso che Fiat abbia scelto l’America, con Matteo Renzi intento a spellarsi le mani per gli applausi a Sergio Marchionne? Il modello ormai è quello, un ciclico perpetuarsi di mercati al rialzo e crisi devastanti che non otterranno altro risultato se non rendere i ricchi (la finanza) sempre più ricchi e l’economia reale sempre più povera. Con il beneplacito dei grandi manovratori, le Banche centrali. E non lo dico io, ma anche Societe Generale nel suo ultimo studio, dal quale si desume la seguente domanda da 4,5 triliardi di dollari (ovvero il bilancio attuale della Fed): la Banca centrale Usa permetterà una seconda stagione di “esuberanza irrazionale” basata sulla valutazione aggiustata ciclicamente della ratio di utile per azione allo Standard&Poor’s oppure lascerà il mercato fare il suo lavoro, ovvero dare vita a una correzione drastica dei corsi?
Il grafico a fondo pagina spiega molto bene la situazione e ci riporta al marzo del 2009, quando invece di fare la cosa giusta – ovvero lasciare fallire aziende ultra-indebitate – la Fed decise di rispondere a un problema di debito creando nuovo debito, nella speranza di generare sufficiente inflazione da cancellare la massa debitoria che gravava sul sistema, ma ottenendo come unico risultato quello di rendere sempre più ricchi gli investitori azionari. Tanto che Scott Miner della Guggenheim dichiarò che «le conseguenze di lungo termine del Qe con ogni probabilità si sostanzieranno con un permanente squilibrio degli standard di vita per le generazioni a venire, il tutto creando unicamente l’illusione di una rinnovata prosperità».
E attenzione, perché la liquidità al livello attuale è garantita per meno di due anni ancora – salvo intoppi -, poi sarà completamente drenata: cosa dobbiamo attenderci, dunque, per il futuro? Una Fed che dà vita al Qe in inverno e alza i tassi al 4% d’estate? Pensate che io sia il solito catastrofista? Bene, sentite cosa ha detto ieri l’ex governatore della Fed, Kevin Warsh, intervistato da Cnbc: «I mercati pensano di avere il numero di Yellen, credono che non permetterà mai che i mercati calino. Questo è uno sviluppo molto pericoloso… La Fed sta cambiando decisioni in base a quanto avviene nell’imminente, mentre dovrebbe farlo ragionando rispetto a 3-4 anni in avanti. La gente, nel contesto dell’economia reale, ha patrimoni bassi e soffre per le pressioni salariali e stagnazione… Abbiamo già provato tassi reali negativi a metà degli anni Settanta e all’inizio dei Duemila e in entrambi i casi è andata a finire male… La Fed può far sembrare che le cose vadano meglio, ma non può farle andare meglio davvero: gli investitori pensano che i bei tempi potranno durare per sempre, ma non è così…. Se ancora oggi non vediamo i mercati prezzare i rischi geopolitici che stanno sviluppandosi nel mondo, penso che sia dovuto proprio all’azione aggressiva delle banche centrali». Auguri.