E’ difficile immaginare per quanto possa andare avanti il caos che attraversa la giustizia italiana. Ed è giunto probabilmente il momento di chiederselo e di porre la questione con forza.
Il potere che ha dettato l’agenda della politica in questi ultimi 25 anni, il potere a cui si sono aggrappati (a nostro avviso sbagliando) molti cittadini italiani, conosce al suo interno scontri e contrapposizioni incredibili da un lato e nello stesso tempo trova un momento unificante nel contrapporsi, ad esempio, al ruolo e alla figura di Raffaele Cantone, l’uomo che presiede l’Autorità nazionale anticorruzione. In fondo, ormai, il confronto-scontro cronico, ormai storico, tra politica e giustizia che si ripete da anni e che non riesce mai a trovare un equilibrio credibile, è solo lo sfondo di una malattia grave.
Se si pensa alla nomina, che ha ricoperto per un anno Piercamillo Davigo, come presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si ha l’idea di quanto sia stato imbarazzante, per non dire irritante e quasi insopportabile per molti magistrati italiani, avere un’Autorità anticorruzione (quasi sopra la testa) e un presidente come Cantone, che ora è di fatto un magistrato in aspettativa.
Pur di contestare il ruolo di Cantone, non si sono guardate e non si guardano all’interno della magistratura distinzioni tra destra, centro e sinistra. Tutti insieme appassionatamente contro il presidente dell’Autorità anticorruzione nominato.
E’ facile rendersi conto di tutto questo solo se si contano le opinioni differenti pronunciate pubblicamente e con enfasi, ma anche le polemiche indirette, i distinguo continui, la diversità di opinioni tra Cantone e Davigo, tra Cantone e altri magistrati.
In questo caso si è avuto, e si ha ancora, uno spaccato abbastanza completo della grande confusione che vive la giustizia italiana e dei continui, cronici rapporti problematici tra giustizia e politica. E ci si rende conto che non si ha alcuna intenzione di affrontare coraggiosamente una riforma della giustizia italiana.
Si ha pure l’impressione del ruolo che la magistratura pretende di avere nella scala dei poteri costituzionali italiani. Un ruolo principale, quasi di indirizzo etico-politico (quasi un ossimoro) della direzione del Paese. Ma questo ruolo è conciliabile con una democrazia moderna e funzionale? E’ un problema che va affrontato senza perdere ancora molto tempo.
Con le dovute distinzioni, le polemiche contro Cantone ricordano, in un certo senso, le polemiche che accompagnarono il ruolo di Giovanni Falcone, quando era al ministero della Giustizia e proponeva l’Autorità nazionale antimafia. La persona, che viene oggi rappresentata giustamente come un eroe-martire della guerra alla mafia, fu al centro di polemiche roventi che partivano anche da vecchi “amici” di sinistra e non fu neppure “compreso” (diciamolo in questo modo) dal Csm del tempo.
Ora, con le contrapposizioni a Cantone, siamo quanto meno alla vigilia di una coincidenza che potrebbe diventare imbarazzante. Nel 2018 si va a votare per il rinnovo del Parlamento, ma nello stesso tempo occorre rinnovare anche il Consiglio superiore della Magistratura, il Csm, l’organo di governo autonomo della magistratura e lo scontro tra le correnti di magistrati non è affatto semplice. Alla fine, sia il rinnovo del potere politico, sia il rinnovo del potere giudiziario finiscono per intrecciarsi inevitabilmente e offrono un’immagine sconfortante del Paese, senza escludere sorprese di palese contraddizione tra le istituzioni.
A una politica carente, “svuotata” come ha detto l’ex leader del pool di “Mani pulite”, Antonio Di Pietro, si contrappone una magistratura divisa al suo interno, unita solo nella difesa delle sue prerogative, tetragona a una grande riforma e reduce da una serie di inefficienze e contraddizioni laceranti.
Si pensi solo a quattro episodi di quest’ultimo periodo. Dopo anni e anni, si è messo in fila un caso Mastella (11 anni per l’esattezza) per un’assoluzione dopo che si è provocato anche la caduta di un governo. C’è stato un caso Penati, con un’altra assoluzione, e un “calvario” per un uomo che si era autosospeso dal suo partito. E pure un caso Scaglia.
C’è stato infine il caso di Marco Milanese, il collaboratore di Giulio Tremonti, che è stato recentemente assolto dalla Corte di appello di Napoli. Sono solo gli ultimi episodi tra i tanti che si potrebbero mettere in fila dai tempi di “Mani pulite” e si distinguono quasi sempre per la lunghezza dei tempi e per il danno che è stato procurato a persone che alla fine risultano innocenti. Inoltre, questi casi danno pure l’impressione di una disparità di giudizio impressionante da giudice a un altro, dalle indagini della pubblica accusa e a quelle della magistratura giudicante. E data la lunghezza dei tempi dei processi, c’è quasi la sensazione che si facciano atroci dispetti tra una procura e l’altra, tra un tribunale e l’altro, usando le persone, mettendole alla gogna, imbrogliando spesso il corso della politica. In definitiva, se la politica conosce una crisi infinita, se ha perso per strada la sua credibilità, il contrappunto della magistratura è tutt’altro che edificante.
Ma qui la questione diventa grave. La somma delle due mancate credibilità, del caos e della confusione (sia politica che giudiziaria), alla fine offre la misura di un crisi profonda delle istituzioni italiane a cui diventa sempre più difficile porre rimedio.
Stiamo solamente facendo un consultivo di questi ultimi avvenimenti che, a quanto pare, hanno messo in allarme (lo si vede dai preparativi per la battaglia del Csm) la stessa magistratura.
Lasciamo perdere la questione della Consip e del padre di Renzi. Non guardiamo neppure alle vecchie imprese di de Magistris e a quelle di Woodcock. Ma lo stato complessivo delle istituzioni italiane diventa veramente preoccupante e può essere visto solo all’insegna di un caos galoppante. La lunghezza della giustizia italiana, che alla fine diventa palese ingiustizia per i tempi infiniti come spesso ci ricorda la Corte europea, non può essere addebitata al numero degli avvocati in Italia, che sono 270mila e quindi sarebbe necessario, per arginare i ricorsi in Cassazione, adottare il numero chiuso alla facoltà di legge. Eppure qualcuno ha proposto questo come base di una riforma.
Ora, se al caos politico di questi ultimi anni si aggiunge il caos concitato che sta vivendo la giustizia, sembra legittimo chiedersi quale sia il limite di sopportazione, cosiddetto limite di tenuta del sistema. Se la risposta del guardasigilli Andrea Orlando è la parificazione tra corruzione e mafia nella scala dei reati, la sensazione è che si sia arrivati all’ultima spiaggia dell’elusione dei problemi e dell’opportunismo politico. E’ un galoppo, tutti insieme litigando appassionatamente, verso il caos italiano, che allontana i cittadini non solo dalla politica ma dalle istituzioni nel loro complesso.