Mi sembra corretto avvertire i lettori che a causa del debito pubblico, e delle modalità per ridurlo decise in sede di Eurozona la settimana scorsa, non sarà più possibile mantenere in vita lo Stato sociale così come è stato finora. Ciò merita una riflessione di “modello” che qui tento di semplificare.
Non è ancora chiaro il quanto e in quanto tempo l’Italia dovrà tagliare il debito pubblico arrivato alle soglie dei due trilioni di euro, quasi il 120% del Pil. Ma è certo che dovrà farlo. Così come è certo che dovrà, in tempi piuttosto brevi, arrivare alla condizione di deficit zero nel bilancio statale annuale. Per ridurre un debito, infatti, la prima azione richiesta è quella di non farne di più. Un primo calcolo fa prevedere che dopo il 2014/15: (a) la spesa pubblica sarà ridotta di almeno 40 miliardi strutturali in relazione a quella odierna per arrivare alla condizione di bilancio in pareggio; (b) ogni anno bisognerà spendere tra un minimo di 30 miliardi e un massimo di 80 per tagliare il debito togliendoli ad altre spese.
Poniamo che vengano a mancare 70 miliardi annui di spesa disponibile in relazione a oggi. Se così, vi sarà certamente un cambiamento nel modello. Finora la politica di riduzione del deficit elaborata da Tremonti è stata fatta tagliando la stessa percentuale a tutti i portafogli di spesa nazionale. Tale metodo dei “tagli lineari” si basa sull’assunto che c’è una parte di spesa pubblica non essenziale la cui cancellazione non comporta modifiche alle funzioni di socialità dello Stato. Ciò è vero. Ma il modello italiano di Stato sociale usa molto denaro fiscale per finanziare apparati, enti e aziende pubbliche. Con 70 miliardi, ma potrebbero essere 100, in meno all’anno in relazione a oggi lo Stato e gli Enti locali dovranno decidere se tagliare funzioni sociali o apparati perché non potranno mantenere i volumi odierni di ambedue.
Al momento tutti e due i comparti di spesa stanno avendo meno soldi. Ma nel prossimo futuro bisognerà scegliere. E ciò probabilmente comporterà un conflitto tra spesa per apparati e quella per le funzioni sociali essenziali, cioè, semplificando, la scelta tra licenziare impiegati pubblici o ridurre l’assistenza medica e altre garanzie essenziali. E se non si vuole fare tale scelta, rallentando il riequilibrio della finanza pubblica, si rischia il collasso dell’euro che distruggerebbe il risparmio.
Quali opzioni abbiamo? Uscire dall’euro tornando a un moneta nazionale implicherebbe molto più rigore (tagli) che non quello richiesto per restare nell’euro stesso per evitare, appunto, la distruzione del risparmio e l’eccesso di svalutazione/inflazione. Ma applicare il rigore per restare nell’euro comporta scelte difficili che è probabile la politica non riuscirà a fare in modo ottimale. Anche perché la gente si ribella ai tagli, come vediamo in questi giorni nel Regno Unito, Portogallo, Grecia, ecc. E potrebbe votare offerte populistiche irresponsabili costringendo la politica a essere meno rigorosa per evitare tale esito.
Alzare le tasse in Italia, già ai massimi, comporterebbe una crisi della crescita. Il farle pagare a tutti via repressione fiscale è già in atto, ma non basterà e sta togliendo denaro ai consumi. Più collaborazione europea? Non c’è segno. Ci resta solo l’aumentare la crescita per ridurre i volumi dei tagli, addolcendo il rigore. Pertanto, in questa preliminare e semplificata riflessione di modello l’attenzione dei lettori dovrebbe concentrarsi sui fattori che porteranno alla crescita del mercato, salvifica, e non sulla difesa a oltranza di tutele statali non più finanziabili.