Il Consiglio europeo del 18-19 febbraio – lo ha sottolineato Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera – ha un’importanza cruciale per il futuro dell’Unione europea. Chi ha la mia età ricorda quello tenuto nella capitale del Lussemburgo il 30 gennaio 1966 che, con un ben mediato accordo chiamato “il compromesso del Lussemburgo”, risolse la crisi apertasi un anno prima quando la Francia decise di disertare le riunioni dei Ministri dell’Europa a Sei (“politica della sedia vuota”) a fronte delle richieste della Commissione europea di modificare la Politica agricola comune (di cui Parigi era la principale beneficiaria), di aumentare le funzioni del Parlamento europeo e di passare, per alcune materie, a votazioni, in seno al Consiglio dei Ministri, a maggioranza qualificata. Il “compromesso” accettò le richieste francesi in materia di agricoltura e approvò l’adozione, in certe materie, di maggioranza qualificata, pur mantenendo il “diritto di veto”, in capo a ciascun Stato membro.
Ora la situazione è molto più complicata. Mentre nel 1965-66 l’Europa a Sei era un’area a forte crescita dell’economia mondiale e aveva il forte supporto degli Stati Uniti (nel quadro di una Comunità Atlantica a due pilastri), ora l’Europa a 28 è dilaniata da forti contrasti interni. Polonia e Ungheria conducono politiche per molti versi in linea con il resto dell’Unione. L’unione monetaria ristagna e nessuno sembra sapere come rivitalizzarla. I Paesi mediterranei chiedono una poco definita flessibilità per i conti pubblici, quasi senza rendersi conto che senza regole chiare e fisse per tutti salterebbe l’intera unione. L’Europa è, poi, alle prese con una migrazione di vasta portata (non immigrazione) che può cambiarne la fisionomia; a quella dal Nord Africa e Medio Oriente, si aggiunge quella dalla Federazione russa e dagli Stati emersi dell’ex Unione Sovietica.
Numerosi leader guardano alla Germania in parte come “determinante delle rigidità”, in parte come “maggior beneficiario del processo d’integrazione” e in parte come “potenziale soluzione” dei problemi europei. Su questa testata abbiamo più volte ricordato che la Germania di Angela Merkel è come quella di Otto Bismarck: da un lato, è tanto grande che qualsiasi sua mossa incide sull’intera Europa; da un altro, non è sufficientemente grande da poter risolvere tutti i nodi europei.
Nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies, Federico Steinberg dell’Università di Madrid e Mattias Vermeiren dell’Università di Ghent tracciano un quadro ancora meno ottimista: pur restando l’economia più importante dell’Unione, la Germania sarebbe stata indebolita non rafforzata dall’unione monetaria non solo per i costi che ha dovuto sostenere durante la crisi ma perché ha dovuto “ingoiare” una banca centrale meno ortodossa e più “accomodante” di quanto avrebbe voluto. Si badi: sono un economista spagnolo e uno fiammingo a scriverlo, non economisti dell’ortodossia tedesca.
In vista del Consiglio europeo occorre tenerne conto perché mentre tutti fanno la fila per avere incontri bilaterali con la Cancelliera Merkel, quest’ultima ha molto poco da offrire a questo o a quello. Sarebbe preferibile tessere una rete di alleanze su temi comuni. A mio avviso, si dovrebbe abbandonare le geremiadi sulla flessibilità (ove accettate l’Italia dovrebbe modificare una legge costituzionale “rafforzata” ormai entrata nel nostro ordinamento) e puntare su tre grandi temi che possono essere un punto di incontro tra numerosi Stati membri: a) migrazioni; b) unione bancaria e mercato dei capitali unico (anche a ragione della crisi della banche dell’Europa continentale messa in luce dall’andamento delle Borse in questi ultimi giorni); c) debito sovrano.
Il primo punto non interessa unicamente gli Stati mediterranei e nordici e pone drammaticamente il problema di quale Europa, e di quali valori europei, sogniamo per i nostri figli e per i nostri nipoti. Gli altri due sono collegati: le banche sono in difficoltà non solo per le sofferenze causate da crisi e recessione anche da quelli che un tempo erano i loro migliori e maggiori clienti, ma perché una larga proporzione delle loro attività è costituita da titoli di un debito sovrano sulla cui sostenibilità lo stesso settore bancario nutre dubbi.
Nei pochi giorni che mancano dal Consiglio europeo, l’Italia (che pare isolata) potrebbe trovare alleati su questi temi.