Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la Decisione di economia e finanza (Def) e il Programma nazionale per le riforme (Pnr). Il condizionale è d’obbligo perché la Def era attesa da almeno una settimana e i rumors di corridoio davano il Pnr in arrivo addirittura il 15 marzo – dato che la Commissione europea ha presentato in novembre, invece che in gennaio, lo scenario di riferimento entro cui formularlo.
Con questo calendario in mente il Cnel ha inviato all’inizio di marzo al Governo proposte per il Pnr; non solo, l’Osservatorio sulle strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco) ha da alcuni giorni rimesso all’Intergruppo parlamentare Europa 2020 (una formazione di parlamentari europei provenienti da vari scacchieri politici) i propri suggerimenti, mettendo l’accento sulle aree meno coperte dal documento del Cnel. Non mancano altre iniziative.
Sarebbe difficile comprendere le ragioni dell’inazione se il Bollettino della Banca d’Italia pubblicato ieri non raggelasse le aspettative ricordando a tutti che oggi le prospettive sono meno brillanti di quanto lo fossero soltanto pochi mesi fa, al tempo dei Decreti Legge chiamati “Salva Italia” e “Cresci Italia”. In aggiunta, il Bollettino tratta la contrazione in corso come un fenomeno macro-economico standard e non come una ben più perniciosa balance sheets recession, ossia una recessione innescata da un eccesso di indebitamento che ha causato un mutamento di paradigma a individui, famiglie, imprese e servizi finanziari – da un obiettivo di massimizzazione dell’utile si è passati a quello della minimizzazione dell’indebitamento.
Ci vorranno mesi per comprendere come uscire dalla balance sheets recession: negli Usa – lo documenta un lavoro di Richard Koo – ci sono voluti trent’anni, il Giappone ci sta tentando da almeno quindici. Cosa fare? Tre modeste proposte possono servire a dipanare una complessa matassa. Esse si basano sul principio rawlsiano di beni primari, che sono quelli che una persona ragionevole considera essenziali, qualsiasi altra cosa la stessa persona giudicasse utile. Quindi sono proposte non solo modeste, ma anche minimali da arricchirsi con quanto è possibile tirare fuori da una finanza pubblica in cui la coperta è corta e che rischia di essere ancora più corta in futuro a ragione del pesante aumento della pressione tributaria.
La prima proposta riguarda i debiti delle amministrazioni (centrali e locali, grandi e piccoli) nei confronti delle imprese. Non solo stanno portando al dissesto numerose realtà imprenditoriali, ma stanno diffondendo a macchia d’olio balance sheets recession: devono essere saldati al più presto, anche se ciò comporta sforare gli obiettivi di un Fiscal Compact sulla cui efficacia nessuno pare più credere. Parte delle risorse possono essere trovate da una moratoria ai rimborsi elettorali in attesa che si trovi un sistema sostenibile e trasparente di finanziamento pubblico della politica (sempre che lo si consideri utile).
La seconda proposta riguarda il riassetto degli ammortizzatori sociali. Deve andare di pari passo con la nuova normativa sul mercato del lavoro, non su due binari differenti e accavallando meccanismi differenti. Dalla razionalizzazione si potrebbero trovare risorse per obiettivi più meritevoli e più prioritari.
La terza proposta riguarda l’occupazione giovanile, la vera vergogna dell’Italia nei confronti internazionali. Esiste una pletora di agenzie (ItaliaLavoro spa, l’Isfol, i centri per l’impiego e via discorrendo) che se ne occupa, con duplicazioni di ogni sorta e una marea di personale (l’Isfol ha 600 dipendenti, mentre il suo omologo tedesco ne ha 40). I risultati sono quanto meno tali da destare perplessità. Qui ci vorrebbero razionalizzazione e uno snellimento urgente al fine di utilizzare le risorse per impieghi produttivi per i giovani, non per burocrazie che paiono girare a vuoto.