La ripartenza è rinviata. Aspettiamo naturalmente quel che dirà il Documento di economia e finanza che il ministro Padoan deve presentare il 10 aprile, ma i dati emersi finora, per quanto contraddittori, talvolta persino confusi, sulla produzione industriale, l’occupazione, la domanda interna, la spesa pubblica e le tasse, mostrano un Paese che fatica in modo enorme a uscire da tre recessioni e da una stagnazione ormai decennale. Dunque, ha ragione il Wall Street Journal secondo il quale l’Italia, non la Grecia, è al cuore dell’intera questione euro?
La crisi di Atene è acuta, quella italiana cronica, scrive il quotidiano americano. “Negli anni ’80 il Pil medio annuale era del 2,1%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale. È calato all’1,4% negli anni ’90, allo 0,6% nel primo decennio del nuovo secolo e a -0,5% dal 2010. La produzione resta di circa il 9% al di sotto dei picchi del 2008”, mette in evidenza il Wsj, il quale apprezza gli sforzi di Renzi, così come fa il Financial Times. Più mercato, più concorrenza, meno protezioni, flessibilità nell’uso della forza lavoro, insomma tutte le riforme dal lato dell’offerta sono le benvenute per i due giornali economici che esprimono lo stato d’animo degli operatori sui principali mercati dei capitali. Sono tutte condizioni necessarie, e tuttavia non sono sufficienti.
Renzi dovrebbe ammetterlo in modo onesto, finendola con la sua tiritera sui gufi per affrontare di petto la questione. Si può davvero essere ottimisti se i dati sul prodotto lordo migliorano appena dallo 0,6 allo 0,7%? È ripresa questa per un Paese che ha perso così tanto terreno? È un gufo Mario Draghi quando dice al Parlamento che la spesa pubblica continua a crescere ed è stato un errore basare il rigore solo sulle imposte?
Prendiamo gli ultimi dati forniti dall’Istat: nel periodo ottobre-dicembre 2014 le uscite totali dello stato sono aumentate del 2,6% con una incidenza sul Pil del 57,6% contro il 56,1% dello stesso periodo del 2013. Nel totale dello scorso anno la spesa pubblica sul Pil arriva al 51,1% rispetto al 50,9%. Altro che spending review. Quanto alla pressione fiscale, sale al 43,5%, un decimale in più rispetto al 2013 e allo stesso livello del 2012, anno in cui si è realizzato un balzo di due punti rispetto al periodo precedente.
Sembra la corsa di Achille e della tartaruga: per quanto veloce vada il fisco, la spesa è sempre più avanti, il bilancio dello Stato italiano offre la dimostrazione più evidente del paradosso di Zenone. Basta e avanza per portare acqua al mulino dei rigoristi teutonici secondo i quali l’Italia è riuscita in qualche modo a evitare il risanamento dei conti pubblici. L’austerità è stata inferiore a quella imposta alla Spagna, al Portogallo, all’Irlanda, per non parlare della Grecia. S’è dimostrata nello stesso tempo a senso unico e inefficace, ha depresso la crescita e non ha sciolto i nodi di fondo. Ecco perché l’enorme macigno del debito pubblico diventa sempre più pericoloso, giustificando l’ansia dei mercati.
In economia il debito non è negativo in sé, al contrario è uno strumento essenziale per finanziare la crescita, come ha scritto Jens Weidmann in un commento pubblicato dal Wall Street Journal. Ma c’è un problema di quantità e uno di qualità. Oltre un certo livello, infatti, il debito assorbe troppo risparmio e spiazza gli investimenti; così facendo deprime la crescita e, di conseguenza, rende sempre più difficile ripagare gli interessi. È proprio questo il punto.
L’Italia sta beneficiando della politica monetaria espansiva decisa dalla Bce. Ma solo aumentando il reddito nazionale in modo consistente il Paese sarà davvero solvibile e non rappresenterà più un rischio per i mercati finanziari internazionali. Di qui l’avvertimento di Draghi ai parlamentari: fate le riforme presto e bene. E tuttavia, a questo punto, anche alla luce delle deludenti statistiche, resta aperto un interrogativo al quale nemmeno Draghi ha dato risposta: la domanda interna. È ormai evidente a tutti che questo resta il buco nero dell’economia italiana. La politica di bilancio non è in grado di colmarlo, certo non lo può fare con l’inane rincorsa tra entrate e uscite. Dunque, è arrivato il momento di prendere decisioni coraggiose dal lato della spesa pubblica corrente.
Dalla lettura dei documenti lasciati in eredità, si capisce perché Cottarelli è stato liquidato: voleva toccare le pensioni più elevate, licenziare i dipendenti pubblici, accorpare apparati dello Stato centrali e periferici, fondere e privatizzare le municipalizzate, tagliare i compensi eccessivi dei burocrati, mettere il naso nei misteriosi costi della politica. Gutgeld, che gode della massima fiducia di Renzi, sarà in grado di andare avanti o metterà la sordina?
L’obiettivo annunciato, risparmi per 18 miliardi, è lo stesso indicato da Cottarelli. Non è molto, ma già sarebbe qualcosa se andasse in porto e se davvero servisse a finanziare una riduzione della pressione fiscale. Padoan dovrà fare appello a tutta la sua competenza e alla sua fantasia per inventarsi qualcosa di nuovo.