E se lo swap greco, quello da svariati miliardi che permise al paese ellenico di entrare in Europa, fosse la copia di un’operazione contabile concepita anni prima a Berlino? Cioè, messa in parole povere, visto che ormai l’austerità si applica a tutto: se quelli che si scandalizzano per i conti truccati fossero stati i primi a truccarli? In quel caso, la tiritera che da ormai tre anni occupa le prime pagine dei giornali, quella sui paesi virtuosi e quelli spendaccioni, gli integerrimi e gli inaffidabili, assumerebbe alla fine i connotati grotteschi che ogni ipocrisia spacciata per indignazione presto o tardi rivela. Con lo spiacevole dettaglio che in questi anni, dal veto tedesco all’intervento Ue sul debito greco, il peso della crisi ha sconquassato gli equilibri europei fino a mettere in dubbio l’esistenza stessa dell’Unione (dell’esasperazione in piazza e dei gesti estremi un articolo di contabilità e finanza pubblica non dovrebbe parlare, tanto più che la tentazione di individuare nel governo tedesco un capro espiatorio è dietro l’angolo e non renderebbe servizio né alla ricerca della verità, né alla memoria delle vittime di questa crisi).
Lo swap greco, si diceva. Una mostruosità da 5,3 miliardi di euro, che vide in cabina di regia l’onnipresente Goldman Sachs nel ruolo di banca consulente, mentre Ue, Eurostat e Bce restarono a guardare in qualità di spettatori non paganti. In finanza pubblica il cross-currency swap, questa è la sua definizione completa, è uno dei derivati più comuni e funziona pressappoco così: due controparti si impegnano a scambiarsi nel corso di un determinato lasso di tempo importi in valuta diversa in base ai tassi di cambio registrati al momento dell’accordo. Mentre questo articolo è scritto, ad esempio, un debito quinquennale da 10 milioni di dollari che paghi interessi trimestrali equivale a un debito da 7,7 milioni di euro, sempre a cinque anni e sempre con pagamenti trimestrali. Stante questa parità, diciamo che il valore attuale di questo swap è pari a zero: alle condizioni sopraelencate tanti dollari equivalgono a tanti euro.
Ma allora perché mai, si chiederà qualcuno, una controparte cambia valuta al proprio debito? La risposta più immediata è che tale controparte scommette su uno spostamento dei tassi in proprio favore, nella speranza di ridurre così il peso dei pagamenti. Si tratta ovviamente di un azzardo, perché il mercato valutario è il più volatile del mondo e perché l’operazione in sé, nella sua gestione ordinaria, è piuttosto complessa.
Per entrare nello specifico dello swap greco, nel 2001 le passività della repubblica ellenica furono convertite in moneta unica e l’operazione di cross-currency permise di convertire l’equivalente di circa 5 miliardi di euro in yen e dollari. Nulla di male, in fondo: a parità di tassi, il valore attuale dello swap è zero e quindi l’operazione non cambia né l’ammontare delle passività, né la natura del debito. Ma se, invece dei tassi di mercato, tra le pieghe del contratto si decidesse di concludere lo swap a tassi arbitrari, magari scelti deliberatamente per favorire il governo di Atene al momento della stipula? D’un tratto, la magia: le passività greche si riducono all’istante. Ma proprio come ogni incantesimo, alla lunga anche l’artificio contabile svanisce: al momento di pagare interessi, infatti, Atene si trova a fare i conti con i tassi reali del mercato e i dollari, quelli veri, costano cari alle casse greche. Traducendo il tutto in termini finanziari, a fronte di un vantaggio immediato (meno debito) il valore attuale dello swap non è più nullo, bensì negativo (si pagherà di più in futuro).
Se ci trovassimo in un laboratorio di statistica, l’equazione tra beneficio attuale e costi futuri manterrebbe in equilibrio l’intero impianto dell’operazione, ma trovandoci alle prese con ministeri, banche d’investimento e agenzie europee, la situazione è più spinosa. E, di fatti, per una svista che gli analisti più maliziosi definiscono piuttosto curiosa, le regole Ue sul debito pubblico consentono di contabilizzare i vantaggi immediati, ma non obbligano a riportare tra i passivi l’impatto negativo degli swap. E così è stato: meno debito a bilancio, nessun rischio da riportare e, più importante, parametri di Maastricht rispettati.
“Nel lungo termine, non puoi vivere al di sopra dei tuoi mezzi” commentò Angela Merkel, citando i proverbi delle massaie tedesche, non appena la crisi fece capolino nel 2008. E quando l’artificio contabile di Atene divenne di dominio pubblico, simili dichiarazioni arrivarono puntuali da molti suoi colleghi di governo.
Peccato che nessuno abbia mai portato un paio di semplici questioni all’attenzione della Cancelliera o del ministro delle finanze Schauble, quest’ultimo particolarmente sensibile all’argomento. Per esempio, le questioni sollevate da un recente report del Fmi, nel quale sono passate in rassegna alcune curiose prassi contabili. Nel caso di Berlino, si dovrebbe spiegare per quale motivo e a quali condizioni il governo perfezionò nell’estate del 1998 una serie di operazioni in derivati per 70 miliardi di marchi (pari a 35 miliardi di euro, sette volte lo swap greco), classificando come “informazioni confidenziali” termini e controparti dei contratti. Va da sé che fu anche grazie a questa e altre alchimie sui bilanci che la Germania di Kohl si presentò in forma smagliante all’appuntamento con la moneta unica, l’anno successivo.
Berlino fu la sola a rifarsi il trucco prima del grande evento? In quegli stessi mesi anche le tesorerie di Francia, Italia e Belgio cominciavano a impratichirsi in derivati finanziari, senza contare che i paesi scandinavi, Finlandia compresa, da sempre sono i più attivi in questi mercati. Ma è poi necessario avventurarsi tra le insidie degli swap per abbellire le finanze pubbliche? Chi abbia un po’ di dimestichezza con le pratiche contabili risponderà di no, tant’è vero che persino un semplice titolo zero coupon, il più semplice tra quelli che le tesorerie possono emettere, si è prestato fino a pochi anni fa a diversi trattamenti, più o meno favorevoli. E sulla preferenza dei governi tra le diverse opzioni, esistono pochi dubbi.
A questo punto, forse, la tentazione è di tirare una nuova linea, dividere ancora i paesi europei, ma questa volta, più che per separare i parsimoniosi dagli spendaccioni, per stabilire con chiarezza chi abbia gestito con profitto i propri azzardi e chi no. Potremmo certo farlo, se non fosse che anche questa nuova lista di buoni e cattivi, presto o tardi, getterebbe la maschera e mostrerebbe una di quelle verità che solo gli aspetti all’apparenza marginali, quali sono i principi contabili, sanno rivelare: tattiche e astuzie sono sì necessarie e, anzi, fanno esse stesse parte del gioco, ma a nessuno di questi accorgimenti potremo delegare il compito di lavorare – governanti, tesorieri e ciascuno di noi in prima persona – per il bene comune dei popoli europei.