Parlando con un amico italoamericano dell’upper class di Manhattan, che vive tra Roma e New York, che aveva votato per Hillary Clinton e che si appresta a votare Sì al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, mi sono accorto che non aveva ancora capito perché era risultato eletto Trump.
Gli avevo pronosticato che questo risultato era più probabile di quanto lui non pensasse, nonostante il distacco che i sondaggi predicevano tra i due candidati a favore dell’ex Segretario di Stato. La Clinton ha effettivamente raccolto circa 300mila voti in più rispetto a Trump; ma il sistema di elezione è maggioritario, in quanto attribuisce a chi sopravanza anche di un solo voto tutti i rappresentanti alla convention dello Stato che rappresenta il collegio elettorale.
Gli Stati membri americani hanno una rappresentanza molto difforme, così che alcuni possono fare la differenza, ma in generale come in ogni sistema maggioritario (l’osservazione vale anche per il tanto osannato sistema elettorale britannico del first past the post), una migliore distribuzione territoriale dei voti consente di avere più seggi che voti, in quanto non serve stravincere nei collegi, ma vincere con poco di più in più collegi e semmai perdere alla grande in determinati altri collegi come — nel caso americano — la California e gli stati del New England. A parte ciò, si segnala comunque il risultato della Florida, dell’Ohio e della Pennsylvania e la circostanza che Trump ha bruciato nella quasi totalità gli Stati interni, ottenendo un risultato utile e una immagine politica inedita.
Perché, oltre al mio amico Thomas (il nome è immaginario), i media americani e i sondaggisti hanno sbagliato l’esito elettorale delle presidenziali Usa 2016?
Non è difficile comprendere il motivo principale, che non è tanto che la signora Clinton fosse parte dell’establishment; l’establishment è molto forte negli Usa e in genere molto rassicurante e perciò seguito dalla maggioranza; il vero motivo è la trasformazione causata dalla crisi economica nella coscienza delle persone.
Attenzione: in America la crisi è passata, i disoccupati sono appena il 5 per cento e le imprese hanno ripreso a produrre. Tuttavia, manca un aspetto ben preciso.
Come studioso delle crisi, so che questa crisi è paragonabile a quella del ’29; anche da quella crisi si uscì con la sensazione che nulla sarebbe stato più come prima, ma tutto presagiva un forte rinnovamento sociale e un’estensione del benessere verso un sistema che mai più avrebbe conosciuto una simile evenienza disastrosa.
Adesso, la punizione verso l’establishment, decretata dal voto a favore di Trump, è stata determinata dalla circostanza che i cittadini americani (e non solo loro) sanno che tutto nel futuro non sarà più come prima, ma sempre peggio di prima, e che eventi disastrosi di portata globale saranno destinati a ripetersi, soprattutto se le terapie messe in campo consentiranno, com’è accaduto in questi anni, di continuare ad accumulare montagne di denaro da parte di banche, assicurazioni, petrolieri, broker, trust, eccetera, mentre il cittadino medio scivola verso un sogno americano ormai irraggiungibile.
Chi è ricco stenta a credere questa verità e a capire che sia fallito l’appello democratico al voto delle donne e dei bianchi, ma anche quello al voto black e ispanico.
Chi è ricco dovrebbe preoccuparsi dei poveri; questo non è un insegnamento cristiano, almeno non solo, quanto soprattutto un principio del sistema politico americano che redistribuisce reddito attraverso fondazioni e interventi di opportunità pubblici e privati, governati appunto dalla cosiddetta poverty law.
La lezione Usa ha un qualche risvolto per l’Italia in questo particolare momento storico, molto conflittuale, con il referendum per la riforma costituzionale?
A me pare di sì, ed è questo.
Renzi si è presentato come un politico eterodosso, con la sua rottamazione; ma una volta al potere ha legato il suo destino ai poteri forti: banche, assicurazioni, petrolieri, eccetera.
Imita Tony Blair, si veste persino allo stesso modo; ma questa imitazione non riguarda l’ufficio di primo ministro che ha ricoperto Blair, bensì il lavoro che questo svolge adesso presso JP Morgan e che Renzi vorrebbe fare quando smetterà di fare il presidente del Consiglio.
Ora, Blair da primo ministro rispettò il Parlamento, la Regina e la Costituzione inglese, non scritta, ma non per questo meno vincolante. Renzi, tutto all’opposto, con il suo essere eterodosso, ha violato tutte le forme e le sostanze della democrazia e ha proposto una riforma costituzionale scritta male e male assortita nei contenuti.
La gente in Italia si sente umiliata dalle misure del governo, non solo per gli 80 euro in cambio dei diritti del lavoro, ma anche per il modo in cui è stata trattata; ricoperta da illusioni — “…è la volta buona”, “…l’Italia riparte” — e sorpresa da amare verità: disoccupazione, emigrazione e difficoltà di ogni genere nella vita quotidiana. Nessuno in Sicilia e in Calabria crede che Renzi farà il ponte sullo stretto, perché considera questa come l’ennesima bufala.
Se le promesse non reggono, non è colpa dell’Europa ed è inutile prendersela con la Commissione europea, è colpa del sentimento post-crisi, per cui nulla sarà più come prima, ma solo peggio di prima.
Per questo si stenta a credere che la riforma costituzionale possa fare bene al Paese, nonostante alcune dichiarazioni in tal senso, poco convinte, da parte dei sostenitori del Sì.
Se i sondaggi italiani sono più accurati di quelli statunitensi, il referendum dovrebbe bloccare la riforma e ciò di per sé può considerarsi un bene, perché la Costituzione è innocente rispetto ai mali politici dell’Italia; ma subito dopo si tratterà di trovare un modo per ricostruire il Paese e portarlo fuori dal guado di una visione pessimista del futuro.