Mario Draghi, atteso ieri sera a Milano, si è fatto precedere in mattinata da un aperitivo robusto, che è risultato, visti i toni, piuttosto indigesto per definirlo un happy hour. “Restano rischi sulle possibilità del governo italiano di centrare l’obiettivo di un deficit di bilancio pari al 2,6% del Pil nel 2014, soprattutto dopo che il quadro economico è risultato peggiore del previsto”.
Pesano come pietre le parole del Bollettino della banca centrale europea che suggerisce “un ulteriore consolidamento del bilancio per essere in linea con il Patto di Stabilità”. La sufficienza, insomma, non c’è ancora. Ma lo scrutinio negativo, notano gli sherpa di Francoforte, non è il frutto di inadempienze del Bel Paese. Anzi, si legge ancora, “le amministrazioni pubbliche hanno registrato nel primo trimestre di quest’anno un disavanzo pari all’1,6% del Pil su base annua”. Questo risultato “segna un miglioramento di 0,2 punti percentuali sullo stesso periodo dell’anno scorso che può essere ricondotto principalmente a un calo della spesa pubblica, specie di quella in conto capitale, a fronte di un rapporto annuale entrate/pil annuo pressoché costante”.
Insomma, i compiti li abbiamo fatti, ma a fronte “di un andamento congiunturale peggiore del previsto” bisogna moltiplicare gli sforzi. È importante, perciò, “rafforzare ulteriormente l’orientamento delle politiche di bilancio nazionali al fine di assicurare il rispetto degli obblighi del Patto di stabilità e di crescita, in particolare per quanto riguarda la riduzione del debito delle amministrazioni pubbliche rispetto al prodotto interno lordo”.
Il messaggio è chiaro. Accanto all’azione della banca centrale che si è apprestata (sfidando le ire della Bundesbank) a scendere in campo con i prestiti Tltro e l’acquisto di Abs è necessario che continui un’azione di contenimento della spesa per rispettare o raggiungere i parametri di Maastricht. Solo in questa cornice la banca centrale, al pari dei vertici dell’Unione europea scelti nei giorni scorsi (con il determinante voto della Germania) potrà promuovere la politica dei singoli Paesi e consentire una fiscal policy più aggressiva.
Il che equivale ad una complicata quadratura del cerchio: le riforme, spesso, hanno un costo iniziale rilevante che inevitabilmente si traduce in un aumento dei costi. Come è accaduto in Germania nel 2003, quanto il governo Schroeder, al momento di dare il via alle riforme del lavoro che portano il nome dell’allora dirigente della Volkswagen Peter Hartz, chiese ed ottenne la facoltà di forare il tetto ai ministri dell’Unione. Perché non prevedere un percorso del genere per l’Europa del Sud? L’obiezione è che, all’interno delle regole in vigore, i Paesi possono aver già oggi la flessibilità necessaria per invertire la rotta. E cedere su questioni di principio, è la tesi “rigorista”, vuol dire consentire ai Paesi inadempienti (Italia e Francia in testa) di cancellare i buoni propositi.
La tesi, per la verità, non convince più di tanto. Oltre, particolare non da poco, al rischio di innescare una crisi devastante di fiducia nei Paesi, mica tanti, dove l’esecutivo gode ancora di consenso popolare, un patrimonio che Matteo Renzi non ha certo intenzione di dilapidare per correre dietro ai dogmi di Jens Weidmann o Wolfgang Schaueble. Potendo, tra l’altro, contare su buoni argomenti.
Primo, perché come si legge nello stesso Bollettino, l’Italia ha rispettato i propri obiettivi, ma l’aggravarsi della crisi ha spostato l’asticella verso l’alto facendo saltare i piani di rientro. Così come è successo alla Francia, “gelata” nel bel mezzo di un tentativo di rientro morbido nei parametri che non si traducesse in una brutale caduta dei consumi. Davvero si può immaginare un percorso virtuoso che che passi solo dall’austerità all’interno e dal recupero di produttività sul fronte dell’export? Il mondo può consentirsi più di una Germania, cioè un Paese che colloca oltre frontiera più di metà del Pil? Anche l’esempio “virtuoso” della Spagna ha i suoi limiti: non solo perché il recupero di produttività ha richiesto tassi di disoccupazione “stellari” ma anche perché, in assenza di una politica comune, si è tradotto in un duello tra poveri: Italia e Spagna competono spesso su produzioni simili senza alcun sostegno dalla domanda tedesca. Dalla nascita dell’euro Berlino ha moltiplicato gli acquisti low cost da Pechino ma ha fortemente accresciuto, contravvenendo alle regole, il surplus verso il resto della Ue.
Inoltre, l’immagine del conflitto tra la formica nordica e le cicale del Sud non rende giustizia al disagio generale. Ieri la Polonia, Paese che non fa parte dell’area euro ma che vanta un peso crescente nell’eurozona, è scesa in campo per chiedere che l’Unione europea metta in circolo, sotto forma i prestiti Bei o altra forma (magari gli eurobond) almeno 700 miliardi di euro per far decollare la ripresa, contravvenendo ai vincoli imposti dalla Germania, ossessionata dall’incubo dell’inflazione.
Al contrario, come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, deflazione e domanda in calo sono “il cuore del problema” in Europa e diventa fondamentale se si vuole arrivare a parlare di ripresa “rilanciare gli investimenti, pubblici e privati, nazionali ed europei”. Insomma, “bisogna crescere di più”.
Che lezione trarre dai differenti accenti tra il Bollettino della Bce ed il parere della Banca d’Italia, largamente condiviso da una parte della Banca centrale? Mario Draghi, com’è ovvio, deve tenere una posizione “mediana” che può condurre ad azioni ritardate e troppo timide. Le misure decise una settimana fa avrebbero avuto ben altra efficacia se la Bce si fosse mossa in anticipo invece che limitarsi a registrare “il deterioramento di agosto”.
Oggi, sarebbe importante che si riconoscesse che è già in atto la deflazione, un fenomeno che non può che essere affrontato (e sconfitto solo nel tempo) se non con un’ energica azine di acquisto di titoli. Più ancora, non si può far finta di ignorare che per uscire da una crisi così profonda è necessario imitare Usa, Gran Bretagna e Giappone abbinando alla politica monetaria un’energica politica fiscale. Altrimenti, a suon di “consolidamenti di bilancio” il treno europeo si fermerà ben prima della prossima stazione.