Comincia (faticosamente) a delinearsi il merito del contendere tra i duellanti per la leadership del Partito democratico, che sono e restano, con tutto il rispetto per l’outsider Marino, Franceschini e Bersani. La posta in gioco riguarda in primo luogo l’identità e la forma del partito.
Se vincesse Franceschini. L’ex vice di Veltroni, che pure ha una storia e una cultura politica assai diverse da quelle del suo predecessore, ha tutto sommato fatto proprio l’impianto progettuale “nuovista” del leader dimissionario.
Il suo Pd continuerebbe a coltivare, in nome di una prospettiva strategica bipartitica più che bipolare, una “vocazione maggioritaria”. Cercherebbe, certo, di non farla coincidere con una sconsiderata, e tendenzialmente suicida, propensione all’autosufficienza, ma evitando di compiere scelte impegnative in termini di alleanze, sia al centro (l’Udc) sia nei confronti dell’Idv sia a sinistra, anche perché le diverse istanze di cui queste forze sono portatrici dovrebbero avere ampia rappresentanza all’interno del Pd, più un contenitore che un partito nel senso classico del termine.
In questo senso, il modello prescelto è una traduzione abbastanza libera del modello democratico americano. Lo stesso raffronto vale, in ultima analisi, per la forma partito. Nel Pd di Franceschini (si pensi all’enfasi posta sul ruolo delle primarie a tutti i livelli) gli elettori sarebbero molto più determinanti degli iscritti, e l’opinione avrebbe un peso assai più significativo dell’appartenenza o, come si diceva un tempo, della militanza; e il segretario eletto sarebbe anche il candidato premier. È appena il caso di ricordare che, per un partito siffatto, il sistema elettorale preferito sarebbe un maggioritario il più secco possibile.
Se vincesse Bersani. All’opposto di quello di Franceschini, il Pd di Bersani, archiviata la “vocazione maggioritaria”, ragionerebbe in termini di coalizione e di alleanze, in primo luogo con l’Udc, nella convinzione che il bipartitismo è estraneo alla storia politica italiana, e che in ogni caso in uno scontro diretto “o di qua o di là” con il centrodestra, il centrosinistra è destinato a perdere di qui all’eternità o quasi.
Niente maggioritario secco, dunque, ma un sistema elettorale il più possibile simile a quello tedesco. Anche se in favore della sua candidatura si sono schierati esponenti cattolici non sospettabili di propensioni “socialdemocratiche”, il Pd di Bersani – un dirigente politico che ha tenuto a ricordare di avvertire un forte senso di responsabilità nei confronti di quasi un secolo e mezzo di storia – si configurerebbe come un partito della sinistra riformista, non liquido ma strutturato, aperto a una parte almeno della sinistra più radicale, disponibile all’intesa con centro moderato e votato anzitutto a cercare di radicarsi di nuovo nella società: una variante italiana di quel campo di forze che, in altri paesi europei, è rappresentato, nonostante la loro crisi attuale, dalle socialdemocrazie.