Ancora una tornata di dati pesantemente negativi ha caratterizzato questa settimana. Dati che tolgono ogni speranza di ripresa a breve termine. E pure la situazione di tante banche italiane, medie e piccole, non induce certo all’ottimismo. La recessione dell’economia reale sta erodendo anche i margini di guadagno del sistema bancario e a soffrirne, come al solito, sono i piccoli del sistema. La produzione industriale in continuo calo e la disoccupazione in aumento completano un quadro dell’economia italiana a tinte fosche. In tutto ciò, la politica italiana sembra annaspare appresso a risultati modesti o di ripiego. Intendiamoci: togliere l’Imu è uno strumento per ridare fiato alle finanze delle famiglie italiane. Sicuramente è un passaggio utile, specie in un’economia depressa da troppe tasse. Ma un passaggio del genere non crea un solo posto di lavoro in maniera diretta. Può crearlo indirettamente, perché maggiore liquidità in mano alle famiglie vuol dire maggiore capacità di spesa, e quindi consumi che riprendono e aziende che ricominciano a fare fatturato e, forse, alla fine, riprendono ad assumere. Ma è chiaro che ci vuole ben altro. Ci vorrebbe un’economia in ripresa, e ci vorrebbe una ripresa sostenuta e durevole.
Niente di tutto questo c’è all’orizzonte, tranne un affannarsi dietro a proposte modeste (l’Imu è una faccenda di pochi miliardi, alla fine) o proposte che, per fortuna solo sulla carta, non possono reggere il confronto con la più semplice analisi logica. Al limite, possono mostrare tutta l’inconsistenza dell’ideologia modernista e relativista, che alla prima seria crisi internazionale ha mostrato la consistenza della neve al sole. Un esempio è dato dall’editoriale di Alesina e Giavazzi apparso come editoriale su Il Corriere della Sera di venerdì 17 (sarà stato il numero a portare sfortuna?).
Inizialmente sembrano aver apprezzato il ministro Saccomanni per aver rispettato l’impegno preso da Monti di contenere il rapporto deficit/Pil entro il 3% (dovrebbe essere al 2,9%, un successo insignificante) e quindi preparandosi a far chiudere dalla Commissione europea la procedura di infrazione che era stata aperta proprio per deficit eccessivo. Ma sostanzialmente, nel prosieguo dell’articolo, lo accusano di avere il “braccino corto” (come si dice nel tennis, quando un giocatore gioca piano per timore dell’avversario), di osare poco. Commentano che, con un deficit al 2,9% e la possibilità di arrivare al 3%, il margine per spendere (per investimenti produttivi) o per ridurre le imposte è pressoché nullo. E se non si torna a spendere, o a far pesare meno il fisco sull’economia, la ripresa non arriverà mai.
Già a questo punto si può fare una riflessione interessante. I fautori del libero mercato che, di fatto, a denti stretti, sono costretti ad ammettere di aver bisogno dello Stato per far andare avanti la baracca. Un’ammissione di una certa gravità, in un impianto teorico secondo il quale meno lo Stato è presente, e meglio è per tutti: questa è la dottrina dominante, soprattutto in campo economico, dai tempi di Thatcher e Reagan in poi, fino ai giorni nostri. Ed ecco la loro brillante proposta. Si tratta di un bel piano da 50 miliardi. Una strategia che preveda, oltre a togliere l’Imu, una forte riduzione delle imposte sul lavoro, abbassando la pressione fiscale di circa tre punti di Pil. Allo stesso tempo, una riduzione delle spese dello Stato pari a un punto di Pil all’anno per tre anni, in modo da coprire progressivamente la precedente riduzione delle imposte.
Anche qui si può commentare facilmente, prima di andare avanti nella loro proposta: se lo Stato prima concede un maggiore spazio finanziario all’economia reale (abbassando le tasse) e poi toglie quello stesso spazio (diminuendo le proprie spese), cosa sarà cambiato alla fine? Avete capito bene: avremo fatto un altro giro di giostra, e poi avremo di nuovo calo del Pil, disoccupazione in crescita, crollo della produzione industriale. Ma nel frattempo sarà passato invano del tempo prezioso, quindi avremo meno margini di manovra.
Ma la strategia proposta da Alesina e Giavazzi ha anche un secondo pilastro: la ripresa del credito. Bene, viene da pensare. Anche perché non manca lavoro da fare, non mancano lavoratori bisognosi di lavorare, non mancano imprese desiderose di intraprendere: quella che manca, e manca dannatamente, è la moneta. Ecco cosa scrivono: “È necessario che le banche ricomincino a prestare denaro a famiglie e imprese. Per far questo, come abbiamo già scritto, bisogna ricapitalizzarle”. Ma come: cosa abbiamo fatto in questi anni? E cosa è stato fatto a livello europeo? Ci siamo forse dimenticati che circa un anno e mezzo fa, il sistema bancario europeo ha preso a prestito dalla Bce oltre 1000 (mille!) miliardi di euro a tasso agevolato, per risanare i bilanci? Ancora non basta? Possibile che una posizione ideologica sia così cieca che dalla storia, anche la più recente, non si sia in grado di imparare? Ma non viene in mente, a questi esimi professori, che tutto il sistema monetario sia semplicemente sbagliato alla radice, perché un bene sommamente sociale, come la moneta, viene di fatto trattato come uno strumento utile a profitti privati, come sono quelli delle banche e delle finanziarie?
Perché prestare nuovo denaro alle banche? Sono forse in grado, in questo contesto di recessione economica, di tornare a prestare denaro all’economia reale, prima che vi sia una ripresa? La storia passata, recente e recentissima, non basta come esempio? Qui risulta chiaro che per assolvere alla funzione sociale della moneta, occorre un soggetto che abbia a cuore gli interessi sociali, gli interessi della popolazione in quanto tale. E tale soggetto, prima di ogni altro, non può che essere lo Stato. Occorre quindi che lo Stato torni a battere moneta, e occorre che vi sia nel mercato una banca di Stato, che si preoccupi più degli interessi della popolazione che dei bilanci.
Evidentemente gli esempi della storia, anche recentissima, non bastano, se le proposte riguardo le banche sono di questo tipo: “La premessa è risanarle, togliendo dai loro bilanci i prestiti insolventi (che in un anno sono saliti da 50 a 60 miliardi di euro)”. E come si fanno a togliere i prestiti insolventi? Anzitutto, un prestito si scopre insolvente solo dopo, quando il debitore non riesce più a pagare, cioè si scopre troppo tardi. E poi per “togliere” bisogna pure dire dove “mettere”: a chi affibbiamo questi prestiti insolventi? E perché qualcuno dovrebbe essere così pollo o disinteressato da prendersi questi prestiti insolventi? Nessuna proposta, nessuna idea dai nostri professoroni.
Se queste sono le proposte, allora meglio procedere piano, andando sul concreto e sul praticabile. come sta facendo Saccomanni. In attesa di cambiare totalmente regole dell’economia e della finanza, tornando a una moneta di Stato. Essa non è una bacchetta magica per risolvere tutti i mali. Ma una assunzione di responsabilità, una prima assunzione di responsabilità di fronte alla sofferenza del popolo e al comportamento della finanza che si avvicina sempre di più alla tirannia.
Come indicato anche dalle recenti parole del Santo Padre: “Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune”.
Vengono qui in mente le parole di Draghi, pronunciate nel luglio del 2012: “L’Euro è irreversibile”. Uno nuovo dogma? Di quale religione? Questo è quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi: una guerra di religione.