Che le generazioni degli attuali trentenni e quarantenni europei vivano nell’illusione che la situazione di pace e di prosperità possa perpetuarsi perché giusta, non sorprende. Spesso ultra scolarizzati, e in forza di ciò in posizioni apicali, nel business o di governo o di analisi politica, queste generazioni hanno solo avuto la conoscenza di una realtà teorica tradotta in regolamentazioni cristallizzate, cioè rappresentazioni procedurali dell’immanente che presumevano l’irreversibilità della condizione.
Non sorprende, quindi, che queste generazioni assuefatte alle comodità intellettuali della pace ricevuta – e del corollario neoliberale degli anni 80 che imponeva la monade ideologica di indivisibilità tra prosperità e diritti politici – non riescano neppure ad immaginare che vi possa essere il conflitto, sia esso armato, sociale, ideologico, nazionale o religioso. Queste generazioni sono stupite dalla scoperta che la condizione immanente è puramente estetica, mentre esiste solo un futuro molteplice e imprevedibile che non smetterà mai di sorprenderci.
Cresciuti nella cuspide della “guerra giusta” promossa dal neo egemonismo mondiale americano degli anni 90, essi hanno integrato moralmente e concettualmente la lezione della distruzione della Repubblica Federale Jugoslava che ha subito le modifiche delle sue frontiere ad opera dei bombardamenti “umanitari” americani in Bosnia (1995) e poi di quelli Nato in Serbia (1999). Né la costruzione di frontiere etniche su pretese pregresse linee statuali ridisegnate attorno a quelle delle repubbliche federate, né la creazione dal nulla dello stato del Kosovo li ha scossi. Tutto è stato ricondotto alla normalità della procedura della “guerra giusta” conclusasi con la panacea delle conferenze internazionali. Uno scenario di “guerra non-guerra” che si ripropone anche oggi nei confronti delle repubbliche ex sovietiche dell’Europa centrorientale o di quelle del Medio Oriente e del Nord Africa.
Convinti che Internet e la finanza fossero i potenti canali che dimostravano l’irreversibilità, i simboli visibili del mondo interconnesso, queste generazioni non hanno colto il pericolo che i capitali e le comunicazioni digitali senza controllo, oltre qualsiasi confine nazionale, ponevano per la sostenibilità di quel Washington consesus che la pace e la prosperità aveva fin lì garantito loro. Essi scoprono, solo adesso, che la mondializzazione ha ridistribuito potere ai rivali, e che in assenza di guardiani del multilateralismo essa non può che avvitarsi in un disfacimento caotico.
Sotto i loro occhi, dal 2001 e soprattutto dopo il 2007, si sta compiendo un riflusso storico di portata epocale che include la ri-nazionalizzazione della finanza, la sottomissione del sistema bancario al controllo regolamentare degli stati, il rallentamento dell’integrazione economica europea e la forte flessione dei flussi di capitali mondiali. Anche il mondo digitale vive un periodo di concreta limitazione – Cina, Russia, Turchia e paesi arabi ne limitano l’uso in base alle necessità della sicurezza nazionale, mentre gli europei tentano di proteggersi dagli abusi dell’intelligence e dai monopoli dei giganti digitali – che sta portando ad una balcanizzazione del web.
Sul piano commerciale, dopo il fallimento degli accordi multilaterali di Doha, il sistema globale dell’Omc si sta frantumando aprendo la strada ad accordi regionali (Tpp; Ttip) costruiti secondo logiche di rivalità antitetica che, indirettamente, sollecitano anche la creazione di sistemi finanziari Sud-Sud alternativi a quello per ora ancora egemone, fondato a Bretton Woods nel 1944. Sulle faglie degli accordi globali ritornano con prepotenza miopi nazionalismi ai quali fanno da sponda le sanzioni, che sono parte della stessa storia. Già nel 1914 la debolezza dell’interdipendenza delle nazioni poco ha potuto fare per contrastare la violenza della rivalità.
Per questo ha ragione Giulio Sapelli che su questo giornale ha messo in guardia sul disastro geostrategico dell’Europa, in Ucraina e nel Mediterraneo. Pesa l’abbattimento morale degli europei che da 35 anni subiscono misure di austerità crescenti imposte dall’Ocse e dal Fmi. Questi organismi sovranazionali hanno imposto le misure di “aggiustamento strutturale” che modificano profondamente la struttura delle società rompendo la grande conquista del XX secolo che, per la prima volta nella storia dell’umanità, dava pari dignità al capitale e al lavoro nel calcolo economico (Weimar e l’Urss ne furono le prime realizzazioni). Queste misure non c’entrano con la Cina o la Russia, ma sono state ingegnerizzate in Europa nell’egoistico tentativo fallace di proteggerne l’egemonia mondiale, cioè per mantenere alto il flusso di capitali verso l’Europa che altrimenti non avrebbe più potuto sostenere da sola la promessa politica del passaggio dal warfare al welfare che la Cee e l’Ue rappresentano.
Allo stesso tempo, in America il sistema del dollaro ha scelto la strada del monetarismo – l’arrogante guerra mondiale dei Chicago boys – che, nel tentativo di assicurare la dominazione finanziaria americana del mondo, ha invece causato uno squilibrio mondiale – prezzi delle commodities; inflazione; debito pubblico – scardinando sistemi nazionali consolidati. Nel 1989 la principale vittima di queste politiche è stata l’Urss, implosa dall’interno per la sopravvenuta insostenibilità del suo sistema economico che ha portato al tracollo di quello politico e sociale. Terminata così la Guerra Fredda, senza sparare un colpo di cannone, il sistema del dollaro ha imposto la propria egemonia finanziaria fondata sul debito sovrano.
A colpi di deregolamentazione – liberalizzazioni dei mercati dei beni, servizi e capitali – le svalutazioni competitive del dollaro hanno costretto l’Europa alla precipitosa costruzione dell’Euro e dell’Ue. Le misure pasticciate e fiacche degli europei si sono scontrate con la realtà della crisi finanziaria e bancaria asiatica del 1997 e simultaneamente con il ritorno della geopolitica e l’emergere della geofinanza. La prima manifestazione del ritorno della geopolitica sono state le guerre non-guerre jugoslave (1991-1999), mentre emergeva la geofinanza con l’apparizione sulla scena mondiale – dal Golfo all’Asia e alla Russia – di possenti ed enormi fondi finanziari sovrani, cioè statali.
Questi ultimi hanno aperto una concorrenza strategica e finanziaria spietata contro quei fondi opportunistici – gli hedge fund – che, figli della deregolamentazione del mercato, hanno dimostrato la loro forza contro gli stati e le loro monete, mettendo le basi del casinò finanziario che ancora oggi distrugge le speranze di molte nazioni nel mondo. Infine, gli errori di gestione economico-finanziaria negli Usa hanno portato all’esplosione della crisi bancaria del 2007, che ha messo a rischio il cardine del sistema politico e sociale occidentale fondato sin dagli anni 20 sulla “democrazia della proprietà”, cioè l’accesso facile al credito immobiliare (e al consumo). Quindi, ancora una volta, la Russia e la Cina nulla c’entrano con la situazione nella quale l’Occidente si è cacciato motu proprio.
Dicevamo del parallelismo della situazione attuale con il 1914, ma ancor più fanno temere il peggio i parallelismi finanziari tra gli anni 20 e la situazione odierna. I dati presentati da Mauro Bottarelli rafforzano ancor più il timore che la risposta ordoliberista alla profonda crisi in Europa stia solo peggiorandone i fondamentali. Inoltre, le ultime misure della Bce testimoniano delle divisioni europee e dell’ultimo atto possibile per Draghi che senza uno shock geopolitico (guerra?) difficilmente potrà contare sul suo bazooka per evitare l’esplosione della bolla speculativa che aleggia in Europa. Non può sfuggire che tutti i crolli finanziari – 1929, 1987, 2001, e 2008 – siano avvenuti tra settembre e ottobre.
Anche il recente vertice della Nato in Galles non ha offerto speranze migliori. Le divisioni tra i paesi europei che in ordine sparso affrontano la situazione in Ucraina e quella nel Mediterraneo e Medio Oriente esaltano i limiti dell’alleanza atlantica orfana del decisionismo Usa. Questi ultimi, rappresentati dalle indecisioni di Obama, si trovano nella terribile situazione di essere debitori mondiali, principalmente nei confronti della Cina e delle petromonarchie del Golfo. Mentre i creditori dell’America ne determinano le scelte strategiche, imbrigliandole nell’indecisione, ad Obama incombe il pesante compito di gestire la riluttanza degli americani e di molti europei ad usare la forza per creare quello schock senza il quale il sistema occidentale si avviterà in una lunga spirale deflazionistica. Una situazione che porterebbe alla fine dell’Occidente che abbiamo conosciuto negli ultimi 70 anni. Questo spiega la partita a scacchi con la Russia, unico contraltare al declino dell’egemonia americana anche in Europa.
Si ha l’impressione che la guerra non-guerra in Europa per ora si componga di uno scambio di favori tra Usa e Russia, un replay di quelli avvenuti con l’instaurazione della Guerra Fredda e il muro di Berlino. La Russia ha salvato Obama dalle tremende conseguenze degli errori di politica estera e strategica in Medio Oriente – le fallimentari primavere arabe dopo il discorso del Cairo e la guerra in Siria – e in cambio riceve, adesso, un margine operativo in Ucraina rappresentato dai dialoghi Putin-Poroschenko.
Alla Merkel è stato chiarito che la guerra vera in Ucraina non si deve fare, ma in cambio le è stata concessa una certa operatività economica e finanziaria in Eurasia, in Medio Oriente e Asia Centrale. Se gli accordi dietro le quinte reggono vivremo comunque delle violente turbolenze geopolitiche e finanziarie. Viceversa, il pericolo che la situazione si avveri in una “guerra in Europa” darebbe ragione alle infauste previsioni del neo nominato presidente dell’Ue, il polacco Tusk. Gli hedge fund già scommettono sulla guerra, ma per gli stati e le popolazioni che ne sarebbero coinvolte si tratterebbe di una catastrofe senza precedenti. Qualsiasi sarà l’evoluzione, è l’Europa che da vaso di coccio rischia seriamente di andare in frantumi. Le recenti, isteriche chiamate alle armi di Giuliano Ferrara sul Foglio testimoniano proprio lo stato di disperazione al quale si è giunti.