Il primo — la personalizzazione — è stato riconosciuto dal premier che però non ha minimamente corretto la sostanza. E cioè ha detto che è stato uno sbaglio nel senso che anche in caso di sconfitta intende rimanere ugualmente a Palazzo Chigi, ma per il resto ha continuato nella “narrazione” dell’uno contro tutti. E’ stato il secondo errore: continuando a voler essere solo lui in scena come protagonista del Sì senza alcun altro esponente di rilievo (al massimo la Boschi titolare della legge) sta attribuendo una ben maggiore coralità al No. Secondo Renzi così emergono l’incoerenza e la contraddittorietà dello schieramento avversario. Ma anche la sua ampiezza (tra voci di destra, di sinistra e di centro) e la pluralità degli argomenti contrari.
Terzo errore è stato il lancio d’inizio della campagna referendaria nel finale della campagna per le amministrative. Doveva spingere al voto per il Pd? Il risultato negativo di quel voto nelle città però non è stato un buon viatico e ha azzoppato l’avvio della corsa referendaria rinviando la prosecuzione a settembre. Inoltre nel solo contro tutti, Renzi continua a battere il tasto di lui giovane contro gli anziani quando è proprio tra gli anziani che si contano i più numerosi elettori potenziali del Sì.
Altro errore è stato il banchetto con Obama. Nessun capo di stato o di governo è mai andato alla Casa Bianca in ottobre alla vigilia del voto presidenziale. Sia per rispetto per i contendenti sia per non farsi strumentalizzare. E, infatti, quella che il 12 settembre era stata annunciata come una “cena di Stato” si è rivelata il 18 ottobre un’adunata elettoralistica per il voto italo-americano a Hillary Clinton. Inoltre il nostro presidente del Consiglio avrebbe dovuto pretendere l’incontro a più ristretto e sobrio livello. Non è stata certo una brillante idea mediatica sedersi con Obama allo stesso tavolo insieme a banchieri, star tv e — unico italiano — John Elkann, che non è precisamente l’immagine né del merito né del bisogno ma solo un “figlio di papà” che ha portato all’estero quella che era una grande azienda italiana. Non il miglior testimonial in tempi di disoccupazione giovanile.
Nella serata di Washington il premier italiano si è così trovato a bordo del Titanic di Obama: l’America potente e allegra — di quelli che l’hanno fatta franca con la crisi economica in corso — e che è andata a schiantarsi contro l’iceberg Trump sorto nel mare mosso delle nuove povertà americane.
Oggi il dato eclatante, anche in Europa, è proprio la conflittualità tra, da un lato, l'”establishment” e, dall’altro, i “perdenti della globalizzazione”.
E’ significativo che dal capogruppo dei Popolari europei, il tedesco Weber, al direttore del La Stampa, Maurizio Molinari, sono già venute analisi e parole più serie e rispettose del voto americano a Donald Trump.
Se la sinistra, americana e europea, snobba le fasce sociali del ceto medio e medio-basso che si stanno impoverendo e s’identifica — come è stato il caso della Clinton — con l’establishment si crea il vuoto di un magma di aree sociali che si sentono senza tutela e senza rappresentanza da parte di sindacati e partiti tradizionali.
La sinistra-establishment — tutta Silicon Valley e Hollywood, banche, grande industria e grandi giornali — in questi anni di crisi ha dato l’impressione di coltivare come priorità l’effetto serra e le adozioni gay, e alle nuove povertà nazionali risponde che prima vengono i migranti.
La crescente moltitudine che anche in Italia vive su un piano inclinato abbassando di anno in anno il tenore di vita e che si vede catalogata come “deplorables”, non “politically correct”, xenofobi, populisti e fascisti ovvero sprezzantemente chiamata “pancia del paese” da chi è a pancia piena, non ha oggi più altra strada che l’astensionismo o il “vaffa”.
Forse Matteo Renzi è ancora in tempo a scendere dal Titanic della sinistra-establishment per occuparsi più dei gufi che dei canarini. E nell’Unione Europea, anziché rimanere incastrati sullo “zero virgola”, ora che a metà mandato c’è il rinnovo degli incarichi nel Parlamento di Strasburgo sarebbe urgente porre all’ordine del giorno — dopo Trump e Brexit — la nomina di una nuova Commissione di Bruxelles, dato che andare avanti con questa Commissione Juncker-Mogherini significa rassegnarsi alla sconfitta paese per paese e in campo internazionale.