L’assemblea annuale dell’Abi, l’Associazione delle banche italiane, venerdì scorso doveva essere un’occasione per tranquillizzare i mercati, i risparmiatori, i correntisti: la crisi è seria, ma non disperata (questo in sostanza il messaggio di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia). Il Monte dei Paschi di Siena sarà salvato con l’intervento pubblico, il bail-in non sarà applicato, i crediti deteriorati vanno scorporati e venduti a operatori specializzati e la banca, ripulita, andrà poi maritata, a quel punto lo Stato potrà uscire rivendendo le sue azioni.
Questo è lo “schema virtuoso” emerso, mentre il presidente dell’Assobancaria, il liberale (ex deputato Pli) Antonio Patuelli, plaude allo Stato banchiere (di nuovo) e denuncia come anticostituzionale il salvataggio delle banche facendo pagare azionisti, obbligazionisti e correntisti con depositi oltre i centomila euro.
Tutto bene? La Borsa ci ha creduto. In realtà, ha celebrato soprattutto il ritorno dello Stato come garante di ultima istanza del sistema bancario (nessuno crede che Mps sia un’eccezione, piuttosto chi specula in borsa scommette sul fatto che diventi la nuova regola). Invece, ogni capitolo del piano di emergenza ha in sé una serie di punti oscuri.
Cominciamo proprio dal ruolo del governo. Viene detto che ormai il via libera dell’Unione europea è cosa fatta. In realtà, da Bruxelles arrivano dichiarazioni quanto meno ambigue se non proprio contraddittorie, con il solito Dijsselbloem che getta acqua ghiacciata sui troppo facili entusiasmi. La questione di fondo resta sempre la stessa: un eventuale intervento statale (temporaneo) è possibile solo se saranno fatti pagare anche i detentori di obbligazioni subordinate. È già successo a Cipro, in Portogallo, in Spagna, in Olanda, in Austria e Slovenia. Potrà accadere anche in Germania con la banca amburghese Hsh. Perché mai l’Italia dovrebbe fare eccezione?
Ciò apre immediatamente il vaso di Pandora. Quanti sarebbero gli obbligazionisti a dover pagare? A quanto ammontano i bond subordinati Mps? Ci sono 4 miliardi e 899 milioni in subordinati con scadenza nei prossimi due anni. Tra questi ce n’è uno da 2 miliardi e 160 milioni emesso nel 2008 che scade nel luglio 2018, venduto a 60 mila clienti per l’acquisizione di Antonveneta. Un titolo privo di rating e mai quotato che viene trattato solo dentro Mps Capital System. Insomma, in caso di bail-in sarebbe il primo a cadere. Con conseguenze anche sulla capitalizzazione della banca.
L’ipotesi, allora, è di convertire questi titoli in azioni, operazione che sarebbe ben vista dall’Ue. Ma a quale valore? Trasformati in soci, gli obbligazionisti che in buona fede avevano impiegato i loro risparmi nell’acquisizione di Antonveneta (avevano loro detto che il prezzo era giusto e avrebbe trasformato Mps nel terzo gruppo bancario italiano), finirebbero in trappola. Lo stesso vale anche per i fondi e gli investitori istituzionali: è vero che, a differenza dei piccoli risparmiatori, possono assorbire le perdite, ma nessuno poi investirebbe nel sistema finanziario italiano. Quanto al Tesoro che oggi è azionista con il 4% potrebbe salire al 7% diventando primo azionista, seguito da Fintech e Axa. Ma non basterà.
E qui veniamo al quarto punto oscuro. Quanti sono i non performing loans? In bilancio sono scritti 46,9 miliardi che sono stati ridotti a 24,2 netti dopo le svalutazioni. Le sofferenze, cioè i crediti inesigibili, sono 27,7 miliardi che, svalutati al 63% diventano 10,1 miliardi. Sembrano giochi di prestigio, in realtà le svalutazioni significano perdite scontate. Qual è il valore di questi npl? Se vengono ceduti al 22% del loro valore come per le piccole banche del Centro Italia, è un bagno che impone un aumento di capitale consistente (per Morgan Stanley almeno 6 miliardi), che sarebbe il quarto dal 2011 (gli azionisti hanno già messo dieci miliardi e il Tesoro altri 4). Se invece vengono piazzati al 37%, cioè alla quota in cui sono stati già svalutati, si crea una disparità evidente. Si cerca una via di mezzo, ma comunque superiore al 22%. E allora chi si presenta nelle Marche, a Ferrara, in Abruzzo, a spiegare che esistono figli e figliastri? Alessandro Penati, l’economista che guida l’operazione Atlante, Visco, Padoan o Renzi?
Non basta. La pulizia dei bilanci del Mps non riguarda solo npl, obbligazioni e derivati (tra l’altro torna fuori dai cassetti anche lo spettro di Santorini il contratto stipulato con Deutsche Bank nei primi anni 2000 per dare il belletto ai bilanci), ma anche gli investimenti fallimentari compiuti in Sorgenia (un’esposizione di 750 milioni), dove i prestiti sono stati convertiti in azioni e adesso Mps è addirittura il maggior azionista con il 22% di un’azienda elettrica in profonda crisi, i cui impianti sono inattivi. E che dire di Alitalia? Anche qui i prestiti incagliati di Mps sono diventati azioni e la banca è socia con il 3,49% di una compagnia aerea che continua a perdere quattrini. Chiunque voglia acquistare la banca senese, dunque, dovrebbe chiedere di liquidare queste posizioni, il che non farebbe che aggiungere altre perdite.
Quanto al fondo Atlante 2 o Giasone o comunque verrà chiamato, non è chiaro chi paga. C’è il residuo in cassa di Atlante1 (1,7 miliardi), ci sono i 500 milioni della Sga, la bad bank del Banco di Napoli. Poi c’è la Cdp diventata ormai non più Cassa depositi e prestiti, ma cassa salvataggi e perdite. E il Tesoro interverrà direttamente? Cosa faranno le altre banche che hanno finanziato Atlante 1, non per atteggiamento caritatevole, ma in nome della stabilità del sistema?
Nessuna quadratura del cerchio, dunque; la soluzione è lontana, tutt’al più si è individuato un percorso e anch’esso ancora a grandi linee (non si sa, ad esempio, chi potrà acquisire Mps risanata e ripulita). Di nuovo, l’Italia si trova in affanno, ad affrontare un’ennesima emergenza. La copertina dell’Economist con l’autobus tricolore chiamato banca che sta per cadere nel precipizio rende bene la percezione sui mercati finanziari. Del resto nel mirino della speculazione ci sono anche Carige (sono abbondate le vendite allo scoperto) o Ubi banca da tempo indicata come potenziale promessa sposa di Mps. La pioggia di cessioni di titoli bancari italiani dall’inizio dell’anno è davvero ingente (basti ricordare che l’azione Unicredit è scesa da 4 a 2 euro appena). E c’è chi pensa che siamo di fronte a un nuovo attacco all’Italia che passa questa volte attraverso le banche e non per lo spread perché la ciambella della Bce tiene a galla i titoli di stato.
I soliti complottisti? Forse. Certo è che il governo deve agire subito, con decisione, ma anche secondo un piano organico, con un’ottica di medio periodo, quella che è mancata finora a proposito del sistema bancario. Privatizzato vent’anni fa, si è scoperto che non può andare avanti senza lo Stato. Un fallimento clamoroso che chiama in causa le responsabilità non solo della classe politica, ma di quella imprenditoriale, del capitalismo italiano nel suo complesso.