C’è un solo dato politico certo dopo la prima giornata di votazioni per scegliere il nuovo capo dello Stato: la crisi profonda, forse irreversibile in cui è entrato il Partito democratico, e la leadership di Pier Luigi Bersani. Ha lanciato la candidatura di Franco Marini e non ha saputo arginare la rivolta del proprio partito e del proprio schieramento. E adesso si dibatte alla ricerca di una nuova strategia che lo tolga dall’angolo in cui si è andato a ficcare.
Le cifre dei due primi voti per il Quirinale sono da rotta di Caporetto: Marini ha ricevuto solamente 521 voti rispetto ai 790 su cui avrebbe potuto contare sulla carta sommando il centrosinistra (senza Sel), il centrodestra e Scelta Civica. Di quei 270 consensi persi forse 30 o 40 solo attribuibili ad altri schieramenti. Oltre 200 sono sicuramente di marca democratica, cioè praticamente la metà dei grandi elettori formalmente in quota Pd.
È uno scenario che assomiglia in maniera inquietante a quello delle elezioni presidenziali del 1992, con il Pd nel ruolo della Dc e Bersani in quello di Forlani. “Ma Forlani quando vide che la sua candidatura al Colle non passava si dimise da segretario del partito”, ricorda aspro uno che allora c’era e contava, Ciriaco De Mita. “E noi – aggiunge un altro ex Dc di rango, Gerardo Bianco – avevamo sempre uno schema alternativo, mentre oggi nessuno ha più una exit strategy”.
Di sicuro di una exit strategy avrebbe un disperato bisogno Bersani. Il timore fondato è che il Pd si sia trasformato in un arcipelago di gruppuscoli e di correnti, come quella Dc che ballava pericolosamente sull’orlo di un baratro chiamato Tangenopoli, da cui finì per essere risucchiata. E in questa guerra per bande appare davvero arduo trovare un nome alternativo a Marini che riesca a ricompattare tutto il Pd, perché chiunque troverà qualcosa da ridire.
In mano a Bersani ci sono sostanzialmente due scenari, i soliti due, che lo tormentano da quasi due mesi: rivolgersi o al Pdl, oppure al Movimento 5 Stelle. Nel primo caso le possibilità spaziano da una sempre più improbabile riproposizione di Marini in quarta votazione (in fondo se conservasse i suoi 521 consensi ce la farebbe), sino al tentativo di mediare su un altro nome che potrebbe essere quello di Anna Finocchiaro, oppure di Massimo D’Alema. Ma la domanda alla quale Bersani non saprebbe rispondere è su quanti dei suoi potrà contare davvero, vista la pressione dell’opinione pubblica (ben orchestrata dall’esterno, per la verità) che ha portato all’azzoppamento di Marini. Quei consensi che D’Alema potrebbe riconquistare a sinistra, rischiano di essere perduti al centro.
L’altro scenario è in queste ore l’incubo del Pdl: Romano Prodi. Forse è quello che ricompatterebbe maggiormente il centrosinistra (anche se nelle settimane scorse si parlava di almeno 50 grandi elettori Pd pronti a non votarlo, e a dichiararlo pubblicamente). Forse potrebbe avere in tutto o in parte i voti di Scelta Civica in virtù della fede europea condivisa con Monti. Forse potrebbe attrarre una parte dei grillini. Verso il centrodestra la scelta del professore bolognese avrebbe però l’effetto di una dichiarazione di guerra, tale da trasformare il Senato in una provincia di Beirut. Non a caso Berlusconi insiste sull’alternativa secca: o accordo con noi per un governo condiviso, oppure elezioni subito. Non dissimile sarebbe a destra l’accoglienza su Sergio Mattarella. E Stefano Rodotà, candidato da grillini e Sel, in fondo ha raccolto solo una ventina di consensi targati Pd.
Ma che grande sia la confusione sotto il cielo del Pd è dimostrato dalla girandola di nomi circolati nel giorno della grande sconfitta. Uno dei giornalisti più vicini a D’Alema, Pasqualino Laurito, autore della celebre “Velina rossa”, ha fatto circolare l’ipotesi di Mario Draghi, governatore della Banca centrale europea. Ma sono circolati anche quelli di Sergio Chiamparino (ex sindaco di Torino, 91 voti al secondo scrutinio, soprattutto renziani), Anna Maria Cancellieri (ministro dell’Interno lanciata da Mario Monti), oppure di qualche giudice della Corte costituzionale come Sabino Cassese, mentre solo sussurrate sono state le ipotesi di Valter Veltroni e Luciano Violante.
Comunque vada, per Bersani non sarà un successo. E soprattutto sarà l’inizio di una resa dei conti che lo vede sempre più lontano dall’agognato approdo a Palazzo Chigi e sempre più vicino alle dimissioni che oggi solo il sindaco di Bari Michele Emiliano ha avuto il coraggio di chiedere apertamente. Renzi in posizione di attacco non fa presagire per lui niente di buono.