Il 24 ottobre 2010, al tempo dei rinnovi contrattuali di Pomigliano e – quasi – di Mirafiori, Sergio Marchionne fu ospite di Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa di Rai3. Tutti dovrebbero ricordare le dichiarazioni del manager italo-canadese, in particolare “Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia, nemmeno un euro dei 2 miliardi dell’utile operativo previsto per il 2010 arriva dall’Italia; non si possono gestire delle operazioni in perdita per sempre”. Polemizzando poi con i sindacati, ricordò che “meno della metà dei nostri dipendenti appartiene a una sigla sindacale” e aggiunse poi che “dobbiamo dare ai nostri stabilimenti la possibilità di produrre ed esportare, gli impianti devono essere competitivi, altrimenti non possono produrre e vendere niente”.
Marchionne ribadiva che per la Fiat l’obiettivo era di raggiungere i livelli di competitività degli altri paesi, e che non c’erano più scuse. Ma non si riferiva a economie certamente più forti di questi tempi come Cina e India, ma a paesi a noi più vicini come Francia, Germania e Inghilterra. Il tema della competitività è centrale per un’impresa, non solo per la Fiat naturalmente. Marchionne ricordava come all’epoca l’Italia era, secondo il World Economic Forum di Ginevra, al 48° posto e come tutti i paesi europei precedevano l’Italia che non era, e non è tutt’ora, stata capace di reggere il peso dell’innovazione.
Il problema della competitività riguarda quindi tutta l’Europa, ma i paesi europei – Spagna compresa – hanno saputo dare risposte. Considerando che, per quanto riguarda gli indici di competitività, l’ultima classifica stilata sempre dal World Economic Forum di Ginevra (settembre 2013) ci vede al 49° posto, è evidente come per noi sia cambiato poco. Al primo posto della classifica si trova la Svizzera, seguita da Singapore. Appena dietro la Finlandia e la Germania. A seguire ci sono gli Stati Uniti, davanti alla Svezia e a Hong Kong.
La graduatoria della competitività, elaborata per la prima volta nel 2005, tiene conto di dodici fattori fondamentali: istituzioni; infrastrutture; contesto macroeconomico; salute; educazione di base; istruzione superiore; efficienza del mercato di beni e servizi; efficienza del mercato finanziario; tecnologia e ict; ampiezza del mercato interno ed estero; sviluppo del business; innovazione. Per non parlare poi di produttività ed efficienza: sempre secondo il World Economic Forum, siamo addirittura in 137ma posizione nella classifica dell’efficienza del lavoro.
Tornando alle parole di Marchionne, si capisce chiaramente come non solo l’Italia è ferma, ma che lui non si riferiva solamente a responsabilità attribuibili al sindacato: si tenga conto, a tal proposito, che la vicenda Fiat è stata continuamente e impropriamente presentata all’opinione pubblica come un duello rusticano tra Marchionne e il sindacato di Maurizio Landini. È evidente che Marchionne si riferiva anche alla politica, che non ha saputo dare risposte all’economia e alla crisi economica: anzi, tra i principali ostacoli alla crescita spiccano la pressione fiscale e l’inefficienza della burocrazia, oltre che l’accesso al credito.
Ma perché oggi Fiat-Chrysler dovrebbe essere più lontana dall’Italia? Perché oggi più di ieri quest’investitore sarà attento ai conti – “non si può gestire operazioni in perdita per sempre”. Al di là del trasferimento a Detroit del centro direzionale, il futuro di qualche stabilimento – come abbiamo scritto – è incerto. La domanda interna è ferma, certamente anche in Europa la crisi del settore auto è forte, Fiat vende in Europa un terzo delle auto di quelle che Chrysler vende negli Stati Uniti (è di queste ore la notizia che le vendite di Chrysler sul mercato automobilistico americano nel 2013 sono aumentate del 9%, il livello più alto dal 2007; si tratta del quarto anno consecutivo di crescita).
Il problema reale è che l’impresa in Italia non ha risposte strutturali per crescere. Se in Italia si producono un quarto dei veicoli della Spagna e meno della Repubblica Slovacca, la colpa non è di Fiat.
Nel 2013 in Italia si sono vendute poco più di 1 milione e 300 mila auto, dal 2007 il mercato italiano è calato quasi del 50%, e più del 25% rispetto al 2011. Oggi in Italia si producono 400mila auto, un quarto di quelle realizzate da imprese straniere in Spagna, nel Regno Unito la sola Toyota ne assembla 3 milioni. Se in Italia non ci sono praticamente investitori stranieri la colpa non è di Marchionne.
Intanto sono iniziati i negoziati per il rinnovo del contratto Fiat-Chrysler in Italia, senza la Fiom-Cgil. Tuttavia, chi scrive ha ragione di pensare che con la Fiom si smorzerà il conflitto; questa fase di disgelo è iniziata dopo la sentenza della Consulta e con la fine, di fatto, della vicenda giudiziale. A novembre, dopo tre anni, sono ripresi i rapporti tra Fiom e Fiat: in Italia Marchionne avrà buone condizioni di governabilità degli stabilimenti e buone soluzioni per la produzione, che di fatto già ha. Ma la direzione di un Paese in caduta di competitività non cambierà con i recenti interventi dell’esecutivo guidato da Enrico Letta: ecco il vero nome del problema che oggi Fiat-Chrysler ha in Italia.
In collaborazione con www.think-in.it