La crisi è mondiale e la Cina si prepara a fare i conti con la recessione Usa. Intanto il Fmi stima la sua crescita dell’8-9% nel 2009. Ma sono molte le incognite, a cominciare dai possibili effetti di una contrazione dell’export. Di questo e altri temi, legati all’andamento dell’economia dopo la crisi che ha investito Usa ed Europa, ilsussidiario.net ha parlato con Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa a Pechino.
Sisci, dal suo punto di osservazione privilegiato può dirci qual è la percezione in Cina di quello che sta accedendo in Usa e in Europa in seguito alla crisi finanziaria?
C’è grande preoccupazione e attesa per quello che potrà accadere, ma prevale l’impressione che le mosse della Fed, negli ultimi mesi, siano state prive di una visione di lungo termine e abbiano sottovalutato di molto il pericolo. Resta ora da capire come la crisi che ha investito soprattutto gli Usa toccherà la Cina, che in un certo senso rimane “schermata” dal punto di vista economico.
In che senso?
Secondo le proiezioni del Fmi nel 2009 – che si confermerà un anno di crisi globale – la Cina dovrebbe crescere dell’8-9%. È vero che ci sarà un crollo di consumi da parre di Usa ed Europa, però la Cina può stimolare il suo enorme consumo interno: facendo per esempio una politica espansiva, attingendo alle proprie riserve e stimolando artificialmente la domanda interna. L’economia interna, per ora, dimostra grande vitalità. La Cina ha una divisa non liberamente convertibile in conto capitale e questo significa che i flussi finanziari arrivano in qualche modo molto più attutiti. Questo esclude, per esempio, una fuga di capitali per la sfiducia nel sistema bancario. Nel complesso, il ruolo “storico” della Cina potrebbe essere quello di “attutire” gli effetti della crisi sull’economia globale.
Qual è lo stato d’animo prevalente di fronte alla crisi economica in cui sembrano entrare gli Stati Uniti?
I cinesi guardano alla storia con grande attenzione. E sanno bene che già due volte, nel secolo scorso, gli Usa sembravano sull’orlo del collasso: prima con la crisi del 1929, e poi negli anni ‘70, con la guerra del Vietnam. Ma che in entrambi i casi l’America è ritornata sulla scena più forte di prima: da un lato il piano Roosevelt ha rifondato l’economia americana e ha permesso agli Stati Uniti di stravincere la Seconda guerra mondiale, dall’altro dopo il Vietnam c’è stata la grande ondata espansiva degli anni ‘80 e ‘90.
Nei giorni neri di Wall Street e delle borse europee anche gli indici di Tokyo sono sprofondati. Perché?
Il Giappone in Asia è una caso a sé stante. Queste onde d’urto arrivano moltiplicate perché il Giappone è in una fase di stagnazione che si protrae da tempo, cioè dalla fine degli anni ’80, e per una serie di errori molto simili a quelli commessi dalla finanza occidentale. Il Giappone si è salvato per il solo fatto di essersi indebitato con se stesso: non è scoppiato ma ha “cronicizzato” la malattia. Il suo debito pubblico è gigantesco: è il 180% del Pil e il suo mercato internon è in crisi. Dato che il Giappone è un esportatore netto, il crollo degli Usa e dell’Europa ha influenzato negativamente i mercati e diffuso la percezione di una crisi imminente, perché se in Giappone crolla anche il mercato estero allora crolla tutto. Questo spiega i crolli degli indici di borsa anche del 10% in un giorno.
Quali possono essere le conseguenze della crisi economica occidentale per il mondo asiatico?
C’è il serio timore che un’altra serie di crolli come quelli che si sono verificati in Usa e Europa possa portare a svalutazioni delle monete, e potrebbe riverificarsi quello che è successo nel 1997, quando la crisi finanziaria si è trasformata in crisi economica e quindi sociale e politica, innescando un cambiamento di regime in molte parti dell’Asia: in Indonesia crollò il regime di Sukarno, in Thailandia ci fu una grande crisi politica, in Corea del Sud arrivò al potere Kim Dae-Jung. Un effetto domino che in Asia è pericoloso e per questo molto temuto.
Negli Stati Uniti e in Europa i governi, per salvare le istituzioni finanziarie e l’economia, hanno nazionalizzato le banche.
La Cina in questi anni è stata molto liberista: da trent’anni a questa parte ha dato molto spazio al mercato, a scapito del ruolo dello Stato. Se in Usa lo Stato entra nelle partecipazioni delle banche e diventa di fatto azionista di controllo, stiamo andando verso un sistema neo socialista? Difficile dirlo, prevale l’incertezza. In Cina resta un punto di domanda.
Qual è la valutazione che viene data della crisi finanziaria che si è propagata dagli Usa all’Europa?
Dagli anni ‘80 gli Usa hanno continuato a praticare una politica espansiva senza interruzione, tenendo i tassi di interesse a livelli molto bassi. In Cina è diffusa l’opinione che sia questa la vera radice del male, perché questa politica ha inondato gli Usa e il mondo di denaro e soprattutto di un comportamento irresponsabile: se il denaro è facile da ricevere ed è facile da ripagare, viene anche facile investirlo male. Già da oltre un anno il governo cinese aveva iniziato ad alzare il tasso di interesse, perché è molto attento ad abbassare i tassi quando l’economia rallenta e ad alzarli, invece, quando essa è in fase espansiva. E critica il fatto che negli Usa sia mancato questo movimento di controllo. C’è infine un fatto significativo.
Quale?
È noto che ad Hong Kong, il valore dei dollari circolanti è garantito da un esatto valore dei dollari americani nelle riserve, cioè ha un controvalore esatto in dollari americani. Per questo Hong Kong ha sempre seguito la politica della Fed nell’aumentare o diminuire i tassi, ma l’ultima volta che la Fed ha abbassato il tasso di interesse portandolo al 2%, le autorità di Hong Kong sono state più timide e lo hanno portato a 2,5%. È un fatto che denota una crisi di fiducia nelle politiche della Fed.
Si parla spesso delle asimmetrie commerciali che hanno aiutato i prodotti cinesi rispetto a quelli europei, o italiani nel nostro caso. Che ne pensa?
Ci sono dati Ue interessanti: è vero che sono aumentate le importazioni Ue dalla Cina, ma è anche vero che le importazioni complessive Ue dall’Asia sono rimaste stabili, cioè invece di importare da Corea e Giappone importiamo dalla Cina perchè coreani e giapponesi hanno delocalizzato le produzioni in Cina. Vista dalla Cina, è la Ue che appare in crisi sulle politiche da adottare. Ed è comprensibile che i singoli Stati risentano di una mancanza di coordinamento intraeuropeo.
Lo abbiamo visto nella battaglia sul tessile di qualche tempo fa…
Esatto. Prendiamo il tessile: tedeschi e polacchi vogliono comprare prodotti tessili a basso prezzo dalla Cina e non vogliono importarli dall’Italia, questa è la realtà. La risposta non può naturalmente essere quella di alzare le barriere, perché così non si fa “guerra” alla Cina, ma alla Germania o alla Polonia. Però, poiché non possiamo parlar male della Germania, allora lo facciamo della Cina, ma il vero problema è nostro. Una soluzione è quella di puntare alla fascia alta di mercato, altrimenti saremo schiacciati non dalla Cina, ma dai nostri vicini.