«Negli eventi umani dovrebbe badarsi a quanto li concatena», ammonisce Geminello Alvi nella sua ultima fatica dedicata a “Il capitalismo. L’ideal cinese”. Al contrario, il più delle volte, si cede alla tentazione di affrontare un problema per volta, nella falsa presunzione di poter meglio dominare il quadro se lo si spezza in tante tessere. Senza calcolare che poi si rischia di non saper ricomporre il puzzle. Eppure, non è difficile individuare il “fil rouge” che lega l’insofferenza della Bank of England, “costernata” per l’intrusione dell’Eba, l’autorità europea delle banche, nei poteri di una banca centrale di un Paese indipendente (e non legato all’euro) con la decisione di George Papandreou di sottoporre a referendum gli accordi raggiunti a Bruxelles. O i tanti altri conflitti latenti tra le scelte maturate a livello comunitario e le reazioni delle forze politiche nazionali, sempre più intolleranti, da Helsinki al Peloponneso.
Basta citare lo slogan scelto da Il Corriere della Sera per lanciare la sua collana di classici della politica: “Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”. Splendido. Ma chi è lo statista nel nostro caso? Il povero Papandreou, da anni con il cappello in mano per mendicare aiuti in cambio di sacrifici invariabilmente rifiutato dalla società greca, fa più l’effetto di una fetta di prosciutto in un toast che non quella di un leader padrone del destino suo e dei suoi rappresentati. L’indignazione di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel merita meno comprensione del gesto disperato del premier ellenico: 24 ore prima della decisione di chiamare i greci alle urne sul proprio destino, Papandreou ha cambiato i vertici militari del Paese. Che si chiede al politico/statista Papandreou? Obbedire ai parametri di Bruxelles anche a rischio della democrazia? O coinvolgere il Paese in scelte condivise, necessarie per affrontare i sacrifici che comunque ci saranno, sia che si resti nell’area euro, sia che si finisca in default (anche se abbiamo visto qual è stata la sua scelta alla fine)?
È il caso che l’Europa, finalmente, si interroghi sul proprio destino. Quattordici meeting consecutivi hanno dimostrato l’inutilità, anzi il profondo vizio di base del metodo adottato: sistemare, uno per volta, i nodi che venivano al pettine all’interno di Eurolandia, quasi che fossero slegati uno dall’altro, frutto di colpe di singoli Paesi e non di lacune nella costruzione dell’edificio che ha accolto Paesi, come la Grecia, che non erano pronti a entrare nell’Unione europea sulla base dei parametri “tecnici”. E così si è scelta la tecnica di un buon curatore fallimentare, affrontando i problemi uno per volta, intervenendo solo a crisi dichiarata, ma cercando di prevenire il prossimo incendio, nella non sbagliata convinzione tedesca che ogni generosità verso le cicale latine (diverso è il caso dell’Irlanda, che non a caso si è già prontamente ripresa) rischia di essere un contributo a fondo perduto alla conservazione dei vizi peggiori.
Questa strategia, però, ha ormai fatto il suo tempo. Inutile sprecare energie, tempo e il denaro necessario per scarrozzare delegazioni in conferenze che riproducono a livello continentale le inutili manfrine della politica nostrana, generando mostri ad alto reddito e a bassa produttività. Il vertice di Cannes, al proposito, è una sorta di capolinea: la Costa Azzurra, uno dei simboli della cultura e della qualità europea, dove i presunti potenti d’Europa cercano di trovare rimedi con il cerotto alla crisi greca e a quella, già annunciata , dell’Italia fingendo di credere che si tratti di un problema di ingegneria finanziaria e non di strategia politica.
Intanto, le delegazioni del Nuovo Mondo, cioè gli Usa azzoppati dalla crisi ma pur sempre superpotenti, si domandano perché l’Europa non metta in campo le proprie risorse, invece che perdersi in liti da condominio. E i nuovi padroni cinesi, corazzati da 3.200 miliardi di dollari di riserve accumulate dall’applicazione tattica del capitalismo su solide basi comuniste, si godono il porprio trionfo rispetto alle “sciocchezze” dell’eredità europea. Altro che iniziativa privata, l’industria cinese, per legge, è controllata dallo Stato nei seguenti settori: energia, petrolio, carbone, petrolchimica, gas, tlc, aeronautica, armamenti, navi, auto, informatica, prodotti metallici. Meno del 10% del Pil è frutto di imprese a controllo privato. Altro che vantaggi del modello europeo: il no di Bruxelles alla Turchia ha portato a Istanbul assai più benefici della presunta solidarietà ad Atene.
È il momento di ripensare all’Europa, così come l’abbiamo vissuta (e sfruttata) in tre quarti di secolo. Delle due l’una: o il Vecchio Continente è consapevole che le conquiste del XX secolo, a partire dal welfare, richiedono oggi un salto di qualità, abrogando privilegi e rendite del passato (non solo le auto blù o i soprusi delle varie caste, ma anche le pensioni di anzianità che non si giustificano più in assenza di lavori usuranti e con un’attesa di vita che supera gli ottant’anni) oppure l’Europa non ha più senso. Ci sarà un asse russo-tedesco basato sulla combinazione di materie prime a Est e di tecnologia a Ovest, ci saranno scelte industriali e culturali diverse per l’Ovest (più facile per il Regno Unito, più complesso il futuro della Francia che torna a guardare all’Africa e al Medio Oriente).
E l’Italia? Chissà. Il nostro destino è nelle nostre mani, come ha giustamente sottolienato Mario Draghi. Le richieste della Bce, in materia di flessibilità del lavoro piuttosto che in materia di controllo dell’efficienza nella giustizia, nell’istruzione e nella sanità, non sono il dikat di un’autorità esterna. Potrebbero diventarlo, se ci dimostrassimo ancora una volta incapaci di affrontare un’agenda di lavoro matura. Sottraendoci alle nostre responsabilità, a ogni livello, rischiamo di consegnare il nostro futuro ad altri. Sia che si consideri l’euro “qualcosa di strano”, sia che si voglia continuare a giocare nella Champions League con una gamba sola.
La responsabilità individuale è il vero contributo della cultura occidentale al mondo. Se vi si rinuncia non resta che il dispotismo più o meno illuminato d’Oriente o le scorciatoie tecnocratiche, più o meno tinteggiate di investitura demagogica. Svegliamoci, senza dimenticare che le formule attuali hanno dato pessima prova di sè: a fine millennio, prima di scelte sciagurate, la Grecia stava senza’altro meglio della Turchia, con la sua povera dracma che ha consentito un boom economico eccezionale.