L’insostenibile leggerezza del debito sembra essere la caratteristica della Legge di stabilità in preparazione. Ne abbiamo discusso su queste pagine la scorsa settimana, evidenziando l’assordante silenzio che sembra avvolgere il tema. Il presidente del Consiglio ama sottolineare i dati sulla leggera diminuzione del tasso di disoccupazione, senza però precisare che la “forza lavoro” è diminuita poiché sono aumentati coloro che, scoraggiati, hanno lasciato il mercato del lavoro. Il ministro dell’Economia sottolinea che a suo parere il debito pubblico nostrano è ‘”sostenibile” poiché gli italiani sono risparmiatori e amano investimenti che “facciano riposare tra due cuscini” (come i titoli di Stato). La settimana scorsa, sulla scorta di uno studio internazionale abbiamo dimostrato quanto ambiguo sia il concetto di “sostenibilità” del debito, specialmente per un Paese che in compagnia di Grecia (ora calmierata a suon di aiuti, anche da parte dei contribuenti italiani) e di Giappone (il cui debito pubblico è quasi interamente interno).
Torniamo sull’argomento proprio perché la “congiura del silenzio” sul debito pubblico non fa bene a nessuno. Non lo fa al Governo che non può predisporre una Legge di stabilità senza tenere conto che il rapporto tra debito e Pil si approssima al 140%. Non fa bene al Parlamento che ha sempre amato la spesa pubblica per accontentare questo o quello ed è in un clima in cui si ha timore di non essere posto in “lista” in situazioni “non blindate” (in un contesto comunque di riduzione dei componenti del legislativo). Non fa bene ai cittadini-elettori, in quanto alimenta illusioni di riduzioni fiscali e altro mentre si è di fronte a una dura realtà.
Nell’ipotesi più ottimistica, un debito pari al 140% del Pil rallenta la crescita. Non è questa la sede per esaminare in termini tecnici se, come sostengono Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, una volta superata lo soglia del 90%, la rallenti di un punto percentuale l’anno. Anche coloro che hanno confutato le stime econometriche di Rogoff e Reinhart affermano che il rallentamento avviene, se non altro perché risorse della collettività che potrebbero essere destinate allo sviluppo devono essere destinate al rimborso degli interessi e alle rate di ammortamento. Tutto ciò incide negativamente sulla produttività, ilmale oscuro che affligge l’Italia da quattro lustri.
In sintesi, l’alto livello del debito è come una tenaglia o uno schiaccianoci sulla politica di economia e finanza. Da un lato, dipendiamo dai creditori stranieri a cui deve piacere ciò che facciamo; altrimenti, al primo tintinnio dei mercati, ci prenderanno a calci come fecero nel 1992 e nel 1995 e come minacciarono di fare nel 2011. Quindi abbiamo una politica di bilancio solo apparentemente vincolata dal Trattato di Maastricht e dal Fiscal compact, ma in cui “lo straniero” entra nei dettagli del riparto tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale.
Da un altro, sappiamo che anche ove avessimo un saldo primario (saldo di bilancio al netto del servizio del debito) pari al 5% del Pil, ci vorrebbero almeno vent’anni per raggiungere gli obiettivi del Trattato di Maastricht e del Fiscal compact. Venti anni in cui la scure cadrebbe per lustri sull’investimento pubblico. Secondo un’analisi dello studio internazionale di management McKinsey, in Paesi avanzati, la spesa pubblica in infrastrutture dovrebbe essere pari al 3,5% del Pil. Nell’eurozona è attorno al 2,5%. In Italia non tocca l’1,5% ed è stata ridotta del 39% rispetto al livello precedente la crisi finanziaria.
Non abbiamo una ricetta per risolvere il problema. Nel 2012 il Cnel mise a confronto le proposte sul tappeto, concordate con le parti sociali, e le offrì al Governo che decise di ibernare l’organo (a caro prezzo) in attesa che l’eventuale riforma della Costituzione lo sopprimesse. Un modo per non parlare del debito? La preparazione della Legge di stabilità costringe comunque a porre le carte sul tavolo. E non si profila un poker d’assi.