Il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si è subito allineato e “coperto”, con un Sì alle riforme costituzionali proposte da Renzi e dal suo governo, su cui il mondo politico e la classe dirigente (in senso lato) italiana sembra impazzire. Tra i comitati del Sì che sorgono come funghi, in contrapposizione a quelli del No, anche in questo caso diffusissimi tra professori, eminenti costituzionalisti, ed ex di ogni tipo, ex o post-partigiani, giornalisti d’avanguardia e anche di retroguardia, ne avremo uno probabilmente anche confindustriale del Sì. E’ l’autentico spettacolo al contrario di una discussione pacata, improcrastinabile, necessaria per una autentica riforma costituzionale.
Sembra che conti di più schierarsi che entrare nel merito di una riforma decisiva per il futuro democratico di questo Paese. Ci sono due aspetti che emergono. Il primo è che, tranne forse che per il monocameralismo, il Senato che riduce i suoi poteri e non vota più la fiducia al governo, i numerosi articoli della Costituzione che verranno cambiati sembrano sconosciuti alla stragrande maggioranza degli elettori che andranno alle urne a ottobre. Il secondo aspetto è che nella scala degli interessi dei cittadini, secondo un recente sondaggio, al primo posto viene il lavoro (54 per cento), al secondo posto la pressione fiscale (15 per cento). Dopo altri problemi piuttosto urgenti, all’ultimo posto arrivano le riforme costituzionali che, secondo questo sondaggio, interesserebbero il 4 per cento degli italiani.
Il problema presenta due aspetti: o gli analisti di sondaggi (fatto non improbabile) sono ammalati anche loro di populismo e di spirito anti-sistema, oppure il capo degli imprenditori italiani (che devono investire e dare lavoro) è leggermente fuori dalla realtà, insieme ai suoi referenti politici. Strano comunque che lo stesso Boccia dica che la ripresa sia fragile, stentata e che in sostanza non c’è ancora, mentre ci avviciniamo all’agosto del 2016 dall’agosto 2007, quando saltò per aria il sistema finanziario internazionale per andare poi a deprimere le crescita in tutto il mondo e compromettere l’economia reale, creando una scala di diseguaglianze sociali che non si ricordava dai primi anni dell’Ottocento. Evidentemente la “mano invisibile” del libero mercato, nella sua forma di ideologia liberista, deve avere sbagliato qualcosa.
La sensazione che si coglie da questo episodio è che, nel mare di problemi in cui ci troviamo sia a livello nazionale, sia a livello europeo che a livello mondiale, ci sia quasi un’assuefazione alla stagnazione economica (nonostante promesse e libera interpretazione dei dati) e si pensi soprattutto a un contenimento, per via istituzionale, alla protesta sociale che sta montando al di qua e al di là dell’Atlantico, per esempio.
La prima sorpresa è arrivata dalla partenza, cinque mesi prima, della campagna referendaria sulle riforme costituzionali e sul quasi “azzeramento” del significato politico del voto amministrativo che riguarda 1300 comuni italiani, con città come Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. Dibatti sfuocati, candidati deboli o “sovrapponibili”, programmi aerei e prospettive confuse, in grandi città che spesso hanno segnato un esempio, o addirittura l’alternativa a scelte politiche nazionali. Si pensi che per alcuni anni la giunta di sinistra a Milano fu la risposta alla politica del compromesso storico a livello nazionale.
La sensazione è che queste amministrative siano una sorta di test elettorale, collocato in un periodo dell’anno dove si è disabituati a votare e dove una bassa partecipazione è ormai considerata fisiologica. In più, qualsiasi risultato salti fuori da queste consultazioni amministrative, a meno di numeri veramente choccanti, si presta immediatamente a scuse, ad alibi di ogni tipo che possono servire sia alla maggioranza di governo che alle opposizioni.
Matteo Renzi ha certamente paura del voto amministrativo, teme una perdita di consensi, ma ha deciso quasi di derubricare queste elezioni perché gli conviene e perché è concentrato soprattutto sul problema della costruzione di un establishment nazionale che deve durare nel tempo.
Ripetiamo comunque che, a meno di numeri choc, queste amministrative non muteranno nulla, tranne un fatto che si rivelerà decisivo tra qualche tempo: la perdita della partecipazione democratica all’amministrazione di una grande città o di un piccolo comune. Cioè l’assenza di una articolazione democratica di base.
La sensazione è che ormai la nuova classe politica italiana sia soprattutto concentrata a presentare un paese cosiddetto “moderno” in Europa e nel mondo il più presto possibile, trascurando passaggi importanti di consenso democratico. Sarà un caso, ma concentrarsi solo sul referendum per le riforme costituzionali è come “rottamare” senza un consenso, se non ampio almeno convincente, una storia che è durata 70 anni.
E’ una disinvoltura che Matteo Renzi si permette caricandosi addosso un grande rischio e dando l’impressione di allinearsi anche lui a diventare una riedizione dell’establishment che si è insediato in diversi Paesi occidentali senza misurare la portata dei contraccolpi sociali che si notano in tutto il mondo. Si parla continuamente, in modo spesso generico e sbagliato, di populismo, ma non dovrebbe essere il sistema a sconfiggere il voto della cosiddetta “pancia” dell’elettorato? Non dovrebbe essere la funzionalità del sistema a sconfiggere il populismo? Dobbiamo rimetterci a studiare la storia degli anni Venti e Trenta del Novecento per vedere gli errori e gli orrori di scelte economiche sbagliate e l’autoreferenzialità di classi dirigenti che non comprendevano i problemi delle masse del tempo?
Certo, i contesti storici sono differenti, ma i metodi per affrontare i problemi si ripetono e sono simili. In genere, una buona politica, una politica accorta mette in atto cambiamenti sul piano istituzionale, anche decisivi, quando governa una società sufficientemente compatta e abbastanza soddisfatta del suo tenore di vita, che non nutre risentimenti per scelte avventate di carattere economico e sociale e soprattutto vede un futuro credibile, vede una strada da percorrere, magari anche con sacrifici. Questo comporta ripensamenti, nuovi tentativi, anche riconoscimento di modelli sbagliati.
Quello che oggi appare in tutto l’Occidente è ancora la convinzione che la grande svolta di carattere finanziario non si tocca e deve quasi precedere qualsiasi riforma istituzionale, anche di carattere sovranazionale. Nel momento in cui è scoppiata la crisi, non si è mai ripensato a modelli economici differenti, al ritorno all’economia reale, ma si è data l’impressione di modellare gli Stati ancora di più in funzione delle esigenze del sistema finanziario mondiale.
E tutto questo avviene, mentre si teme, da più parti, la possibilità che a questa stagnazione possa seguire un’altra crisi.
Possibile che a nessuno (tranne pochi) venga il dubbio, solo il dubbio, che è proprio questa la ragione per cui il populismo e le forze anti-sistema dilagano e il sistema viene quasi demonizzato, dimostrando talvolta di non saper assorbire le contestazioni che arrivano da più parti?
C’è ad esempio, in questa riforma costituzionale italiana, la convinzione diffusa di un accentramento di decisioni e di poteri che potrebbero assicurare grandi vantaggi per multinazionali, poteri finanziari e interessi economici colossali, non quelli legati alla nostra piccola e media industria.
Il nuovo ministro allo Sviluppo economico esordisce con un via libera quasi entusiastico al Trattato transatlantico (TTIP) criticando le interferenze degli Stati. Ma non servirebbe un dibattito parlamentare? C’era bisogno proprio di una simile dichiarazione in questo momento?