Matteo Renzi nel discorso per il decennale del Pd — non più “uomo solo al comando”, ma più ascolto e collegialità — è sembrato temere solitudine e isolamento. Anche l’unico degli “elefanti” storici del Pd intervenuto, Walter Veltroni, ha marcato la distanza rivolgendosi alla platea con “Voi” e mai “Noi”. Il dato di fatto è che il leader del Pd da un lato ha perso il braccio di ferro con il Quirinale che aveva iniziato dopo la sconfitta del 4 dicembre per elezioni anticipate senza nuova legge elettorale e senza necessità di alleati e dall’altro lo aspettano due scadenze elettorali — il referendum in Lombardia e Veneto del 22 ottobre e il voto in Sicilia del 5 novembre — dove il Pd si trova in due “pasticciacci brutti”.
L’approvazione della nuova legge elettorale ricorrendo al voto di fiducia con l’evidente sovrintendenza del Quirinale ha ormai segnato la trasformazione dell’esecutivo di Gentiloni da “governo fotocopia” di Renzi in “governo del Presidente” di Mattarella ed è appunto su questa strada che è avviata anche la prossima legislatura con il cosiddetto “Rosatellum“. Infatti gli ultimi tentativi di dar vita a una coalizione vincente a sinistra si sono infranti nel caso Pisapia. L’ex sindaco di Milano ha visto vanificato il ruolo di possibile cerniera nel momento in cui, dopo aver intimato passi indietro a D’Alema e a Renzi, è stato poi valutato dai sondaggi non oltre l’1 per cento. La reazione di Renzi — una coalizione imperniata sul Pd con a sinistra una lista promossa da Emiliano di amministratori locali e movimenti civici e sulla destra la Bonino con una piattaforma europeista alla Macron — può rivelarsi efficace, ma sembra pur sempre lontana dall’autosufficienza.
Nell’immediato quel che più preoccupa il Nazareno sono le sfide regionali che incombono. Di indubbio rilievo politico nazionale è l’esito siciliano in quanto è lì che per la prima volta si consuma lo scontro tra Renzi e gli scissionisti. Il segretario del Pd si è esposto in prima persona per la ricucitura con Alfano in diretta competizione con Mdp. In Sicilia cioè Renzi ha organizzato la “prova generale” per l’appello al “voto utile” al Pd nel “corpo a corpo” contro il centro-destra di Musumeci in modo da ridurre ai minimi termini gli scissionisti e far emergere vincente l’alleanza del Pd con Ap. Nella trattativa con Alfano, Renzi ha esplicitamente coinvolto il quadro nazionale e la stessa legge elettorale.
Ora c’è però il rischio non solo di vedere non riconfermata la maggioranza uscente di sinistra, ma che il Pd con Alfano non arrivi nemmeno al ballottaggio. Il Pd in Sicilia infatti sembra nelle sabbie mobili: Alfano ha perso circa metà del suo partito, l’ex presidente Crocetta ha “scoperto” che non può presentare la lista di supporto e, in più, dopo che Leoluca Orlando ha inchiodato il Pd a un candidato come il rettore Micari della “società civile” — e cioè senza voti organizzati — la rete del sindaco di Palermo in queste ultime settimane sta facendo la campagna elettorale per Fava di Mdp. E i sondaggi vedono Fava davanti a Micari.
Non è da meno il “pasticciaccio” lombardo dove gli esponenti più noti del Pd di Renzi — il sindaco di Milano Beppe Sala e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, candidato a nuovo presidente della Regione — hanno smentito il no iniziale del Pd al referendum indetto dal leghista Maroni e si sono schierati per il Sì. In tal modo i Pd del Sì dichiarano di “aver tolto a Maroni la possibilità di usare la vittoria nel referendum a suo favore”. Di certo non è un atteggiamento bellicoso. Il Sì del Pd al referendum risuona come una sorta di “Passo” al tavolo del poker. Non è emersa da parte del Pd — almeno finora — né una visibile critica né una chiara alternativa alla piattaforma autonomistica della Lega. Rinunciando a contestare il referendum sull’autonomia, l’imminente campagna elettorale avrà così al centro — come desiderato dalla Lega — soprattutto il tema dell’immigrazione e lo ius soli.
Inoltre, mentre i sondaggi hanno indicato che la maggioranza dei lombardi — il 53 per cento — ritiene inutile il referendum, è grazie alla copertura offerta dai sindaci del Pd che Maroni ha rilanciato la propaganda per l’affluenza. Il Corriere della Sera infatti non avrebbe pubblicato in pagina nazionale addirittura un editoriale e poi, ogni giorno, articoli nelle pagine locali a favore del referendum se non ci fosse anche il consenso di autorevoli esponenti di sinistra. E’ in questo quadro che va vista la reazione del ministro bergamasco, Maurizio Martina, vicesegretario nazionale del Pd che è sceso in campo per il No. Inutile almanaccare: si vedrà già domenica sera chi abbia avuto ragione tra Gori e Martina.
Di certo con la segreteria Renzi il Pd, a dieci anni dalla nascita, nelle realtà locali sembra un po’ allo sbando e con un’identità un po’ sbiadita.