La riforma del Credito cooperativo è finita in una delle tante “terre di mezzo” della Roma 2015? La lunga intervista rilasciata ad Avvenire dal presidente di Federcasse, Alessandro Azzi, ha comunicato un disagio evidente crescente: preoccupato e soprattutto sorpreso per il ritardo con cui il Governo sta dando seguito a un dossier di primo livello politico-economico.
Il testo del decreto sull’aggiornamento della governance per le 371 Bcc italiane era atteso per il mese di settembre: che invece è trascorso senza che del provvedimento vi siano stati anche solo segnali di preavviso. A oltre due mesi dall’approvazione del progetto di autoriforma da parte del consiglio Federcasse, il “silenzio della politica” lamentato da Azzi lascia ormai spazio a voci e congetture disparate. Sono ogni giorno più fitte le indiscrezioni su esitazioni inaspettate da parte di quello stesso esecutivo che lo scorso gennaio aveva in un primo tempo deciso di intervenire d’autorità sulle Bcc, con lo stesso decreto per obbligare le maggiori Popolari a trasformarsi in Spa. La scelta di far poi percorrere al Credito cooperativo la via dell’autoriforma non ha certo diminuito il pressing, anzi.
Da gennaio i vertici del movimento sono stati in tour de force permanente, consegnando tuttavia in tempi rapidi il “compito a casa” richiesto dalle autorità monetarie italiane ed europee. E i contenuti del “pacchetto”, ha ricordato Azzi anche ad Avvenire, sono quelli concordati con Tesoro e Bankitalia e raccolgono entrambe le guidelines strategiche indicazioni. La prima è la ri-declinazione della tradizionale autonomia delle Bcc attraverso la più moderna categoria della “meritevolezza”. Ciascuna Bcc – nel disegno di autoriforma – resta indipendente, ma viene coinvolta in una dinamica “di sistema” finalizzata a garantire standard di solidità ed efficienza, di “sana e prudente gestione” adeguati al sistema bancario uscito dalla grande crisi. La seconda indicazione – correlata alla prima – ha suggerito al Credito cooperativo di rendersi più compatto attraverso una configurazione progressiva a gruppo, più funzionale sia all’accesso ai mercati dei capitali, sia ai nuovi modelli di vigilanza europea.
Il confronto all’interno del sistema-Bcc registrato dalla cronache è stato molto serrato: ma nessuna componente del movimento si è sottratta a un impegno sentito come collettivo, sollecitato dal governo come sfida-Paese. Nessuno ha ignorato le scadenze del nuovo Meccanismo di Risoluzione europeo (“bail-in”) che anche l’Italia si accinge ad adottare come paese membro dell’Unione bancaria. Dall’1 gennaio se una banca in Europa andrà in dissesto, pagheranno azionisti, obbligazionisti e – nel caso – anche i depositanti sopra la soglia assicurata del 100mila euro.
Il Credito cooperativo per primo – e per intero – si è mostrato consapevole che nel “nuovo mondo bancario” la stabilità del sistema bancario sarà il bene più prezioso. Un bene niente affatto gratuito, un bene che va conquistato e mantenuto con investimenti adeguati, in termini strategici, patrimoniali, di governance. Ed è una sensibilità di cui le Bcc, per la verità, non sono sprovviste: la prima ipotesi di un Fondo di garanzia istituzionale del Credito cooperativo data ancora al 2005, agli Stati Generali di Parma.
Sarebbe davvero sorprendente scoprire che il governo italiano ha spinto il Credito cooperativo nazionale non a cambiare per rafforzare il sistema-Paese, ma in una terra di nessuno prodromica a qualche rottamazione del caso. Non sarebbe invece sorprendente, purtroppo, osservare un progetto di riforma della democrazia economica nel Paese rotolare come un paio di dadi sul tavolo delle negoziazioni e dei regolamenti di conti della politica spicciola.