Matteo Renzi è alla vigilia della rielezione alla guida del Pd con una maggioranza interna ancora più ampia e fedele, ma sulla scena politica si è incastrato nella parte che meno gli si addice: il gufo. Quasi quotidiani sono le prese di distanza critica dal Governo e gli attacchi ai “ministri tecnici”. Anche il giorno di Pasqua dal vertice Pd Debora Serracchiani lamenta che “il governo deve fare di più” e rinnova l’attacco a Padoan: “Il governo deve far sentire la nostra voce in Europa con determinazione”. A sua volta, più aspramente, il reggente-portavoce di Renzi, Matteo Orfini, dalle colonne della Stampa, contesta “testi che suscitano perplessità” e intima ai “ministri tecnici” di “riaprire e correggere i dossier”. Ma i cosiddetti “tecnici”, Padoan e Calenda, rappresentano la politica economica, il principale impegno del governo Gentiloni, e il risultato ottenuto da Renzi è stato quindi il congelamento con il rinvio delle scelte — una manovra da oltre 10 miliardi — a dopo l’estate. Orfini così si spiega: “Quando era al governo il segretario del Pd era sufficiente che parlasse con se stesso. Ora che non è così, è naturale che si debba discutere”.
Ma davvero l’ex premier ritiene utile questo linguaggio e cioè ricordare e promettere che per Renzi governare ha significato e significherà “parlare con se stesso”? Davvero in Italia c’è così tanta nostalgia e attesa per Renzi?
Un fatto che dovrebbe far riflettere è che un finora sconosciuto Marco Minniti, in tv sempre vestito di nero con lo sgradevolissimo look dello jettatore, in tre mesi è diventato il ministro più popolare e simpatico d’Italia proprio perché ha evidenziato una netta discontinuità rispetto a Alfano e Renzi sull’immigrazione. Più in generale i sondaggi sono concordi nel vedere il Pd ormai superato sia dal M5s sia dal centro-destra unito (e infatti la Meloni si è già riconciliata con Berlusconi e Salvini sfuma l’uscita dall’euro).
L’essere gufo di Renzi dipende dal fatto che dopo il 4 dicembre ha adottato la politica della rivincita e non del rilancio di un piano di riforme (a cominciare dalla legge elettorale sul piano istituzionale e sociale). Lo spirito di rivincita lo porta a una linea che vede solo la resa dei conti elettorale e considera inutile tutto ciò che può essere fatto in questo Parlamento dopo la sconfitta referendaria. Ma così Renzi rischia di finire subalterno all’Agenda Grillo inseguendo i 5 Stelle su casta, costi della politica e reddito di cittadinanza.
Soprattutto il ruolo di gufo mette Renzi in una posizione di sostanziale isolamento e in particolare di incomunicabilità e di rottura con il Quirinale e con l’Unione Europea.
Alla richiesta di Mattarella di nuova legge elettorale il costituzionalista di Renzi, Stefano Ceccanti, ha replicato perentorio che la rivincita contro il Quirinale per il diniego di immediate elezioni anticipate consiste, salvo la rettifica sullo sbarramento, che si voterà con le sentenze della Consulta: “Non vedo chance di uscirne fuori. Anche la moral suasion di Sergio Mattarella non credo possa avere particolari effetti”. E quindi? “Doppia elezione” come in Spagna e Grecia: “Al voto nel 2018 con il proporzionale e poi di nuovo elezioni”. Prefigurare in questo modo un periodo di confusione e di instabilità per i prossimi dodici mesi significa lo scontro frontale con il Quirinale.
Per quanto riguarda l’Unione Europea è certo necessario un cambio di rotta soprattutto con Trump e Putin che guardano con favore ai movimenti disgregatori. Ma a tal fine — se non si vuol essere un’inconcludente variante della demagogia populista (del credere di guarire rompendo il termometro) — occorre avere alleati e concordare tappe e obiettivi per una maggiore integrazione nell’eurozona. Il Renzi che non vuole vedere né sentire parlare di Mario Draghi e che si mette contro tutti i socialisti della Commissione non è un’alternativa all’antieuropeismo populista. Siamo al punto che il commissario Moscovici, che come socialista francese era il primo e più naturale alleato, rilascia interviste in cui, sapendo quanto siano invisi a Renzi, esalta Padoan e Mogherini e minaccia, nel caso dovesse tornare in pista Renzi con i suoi atteggiamenti di sfida, una procedura d’infrazione non per deficit ma per debito, che inchioderebbe l’Italia ad anni di commissariamento.
Se Renzi ragiona come Orfini e Ceccanti, anche se avrà il 300 per cento nell’Assemblea nazionale del Pd, difficilmente approderà di nuovo a Palazzo Chigi.