La prima volta di Letta al Consiglio europeo da premier è stata descritta, prevalentemetne, come un successo. Il presidente del Consiglio avrebbe strappato ai partner la promessa di un impegno per risolvere la piaga della disoccupazione giovanile che sarà concretizzato nel Consiglio straordinario di luglio. Gli eventuali stanziamenti potrebbero essere esclusi dal computo del deficit. Anche su questo fronte ci sono buone notizie. L’Italia, già la prossima settimana, dovrebbe uscire dalla procedura europea per deficit eccessivo. Potremo così alzare il nostro deficit sul Pil per il 2014 al 2,9%, rispetto al 2,4% inizialmente previsto. Abbiamo chiesto ad Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università G. D’Annunzio di Pescara, se ci sia effettivamente da rallegrarsi.
Quello di Letta è stato, effettivamente, un successo?
Nonostante il negoziato su alcuni aspetti fiscali possa aver concesso un grado di libertà in più all’Italia, resta il fatto che le condizioni attuali del sistema monetario europeo impediscono qualsiasi tentativo di politica espansiva. Benché il nostro deficit di competitività sia elevato, infatti, non siamo in grado di svalutare. Di conseguenza, le nostre esportazioni calano, e non ci resta che indebitarci con gli altri paesi, dai quali dipendiamo sempre di piu.
Non crede che la possibilità di arrivare al 2,9% del rapporto deficit/Pil ci consenta un minimo di respiro?
I margini di manovra sono molto più ristretti di quelli che vengono descritti dalla stampa che, dal canto suo, non fa altro che tentare di instillare una visione ottimistica. Si consideri che i vincoli europei sono sempre in rapporto al Pil, il quale è in caduta libera ormai da 7 trimestri. E siccome ogni volta i governi italiani hanno sovrastimato le previsioni di crescita, è lecito aspettarsi, anche quest’anno, una recessione più grave di quelle ipotizzata. Presumibilmente, quindi, sforeremo rispetto all’obiettivo del 3%. Insomma, se si procede su questo trend di decrescita, la procedura potrebbe riaprirsi.
A questo punto, cosa ci resta da fare?
Bisogna allineare il peso della valuta italiana a quello della nostra economia reale, o a quello dei partner europei. Un procedimento che, in Italia, ancora non viene preso in considerazione, ma all’estero sì. È necessario aggiustare il mercato dei cambi. In tal senso, l’unica proposta ragionevole mi pare quella contenuta nel “Manifesto per solidarietà europea” che sarà presentato il 20 giugno a Parigi e al quale hanno aderito personaggi come l’ex presidente della Confindustria tedesca o alcuni illustri professori che hanno operato come consulenti per l’Unione Sovietica quando si è trattato di smantellare l’area del rublo.
Cosa propone il manifesto?
Di procedere con uno smantellamento concordato dell’Eurozona che si basi sul principio secondo cui un gruppo omogeneo di paesi del Nord (soprattutto la Germania) abbandoni la divisa unica, lasciandola a quelli del Sud. Successivamente, si procederà con una serie di aggiustamenti volti a valutare o svalutare le diverse monete. È il modo più immediato e rapido per dividere i costi dell’aggiustamento in maniera più equilibrata.
Perché la Germania dovrebbe accettare un’operazione del genere?
L’euro attribuisce alla Germania un vantaggio competitivo in termini di prezzi. Tuttavia, i paesi del Sud, che rappresentano pur sempre il suo principale mercato, sono totalmente in crisi. Se disponessero di una moneta leggermente svalutata (o se venisse rivalutata quella tedesca), le loro economie riprenderebbero a respirare. A quel punto la Germania, a fronte di una perdita di vantaggio iniziale, ci guadagnerebbe in termini di esportazioni che, altrimenti, a lungo andare, crollerebbero. D’altro canto, il vantaggio iniziale era legato alle circostanze in cui venne introdotto l’euro, quando le economie dei paesi meridionali erano ancora sane. Dopo che queste hanno finanziato l’acquisto dei prodotti tedeschi per un decennio, cambiare le regole può far comodo anche alla Germania.
(Paolo Nessi)