Parliamoci chiaro: neanche Attila avrebbe potuto devastare la Finmeccanica in sei mesi come qualcuno afferma che l’abbia devastata Alessandro Profumo. In verità, i nodi che sono venuti al pettine negli ultimi giorni portano tutti la firma di Mauro Moretti, il mediocre manager gestionale che l’ignorante protervia dell’ex premier Matteo Renzi ha collocato al vertice di un gruppo che avrebbe richiesto ben altre competenze. Semmai, Profumo sta facendo ciò che prescrive la prassi McKinsey – la “griffe” della consulenza la cui cultura impregna anche l’ex presidente di Unicredit: cioè deprimere al massimo la “narrazione” dell’esistente trovato nel luogo dell’insediamento, per poi poter, da quel momento in avanti, soltanto migliorare, assumendosene tutti i meriti. Ammesso, però, che miglioramenti veri siano ancora possibili.
Cerchiamo di capirci, partendo da lontano. La Finmeccanica – com’è giusto continuare a chiamare Leonardo, contrariamente alla cervellotica decisione di Moretti di contaminare il nome del genio di Vinci appiccicandolo a cannoni e bombardieri – vende appunto armi. Nessuno scandalo: è un mestiere tristemente inestirpabile dalla faccia, anzi la feccia, della terra. Poi, per carità: occasionalmente, nell’ideare, progettare e produrre tecnologie destinate a seminare morte, tutte le grandi industrie dell’armamento escogitano anche, occasionalmente, sistemi per curare la cecità, o costruire ponti meravigliosi e telescopi o velivoli da turismo. Del resto, Internet in persona è nata al Pentagono. Quindi: bando ai moralismi.
Finmeccanica produce armi, il suo problema è venderle, e per riuscirci – fortunatamente – non può bastarle aprire uno shop-on-line su Alibaba o uno store su eBay. Deve essere, e rimanere, in un giro ristrettissimo di relazioni diplomatiche internazionali perennemente border-line col malaffare globale dei servizi segreti che armano dittatori e miliziani di mezzo mondo e dei trafficanti d’armi che lucrano cifre da favola intermediando partite di merce, denaro con cui ungono ruote istituzionali di livello insospettabilmente alto. Essere in quel giro non implica automaticamente condividerne il malcostume: ma avere uno stomaco forte, questo sì.
Al momento di nominare il vertice di Finmeccanica Renzi decise di sfoggiare la sua famigerata capacità rottamatrice. Rimuove senza esitazioni l’allora amministratore delegato Alessandro Pansa – scomparso prematuramente pochi giorni fa -, non osa toccare il presidente, l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, un bravo funzionario di Pubblica sicurezza assurto al rango di eminenza grigia dei rapporti con gli americani, consolidandosi al punto da superare come una salamandra l’incendio dei misfatti del G8 di Genova, dalla Diaz a Bolzaneto; ma impone il suo diktat inserendo al vertice come amministratore delegato Moretti, che sfila dalle Ferrovie dove – in un luogo che non richiede la maledetta capacità di trovarsi i clienti – il tran-tran da tagliatore dispotico dell’ex sindacalista Cgil atteggiantesi a padrone delle ferriere aveva avuto una sua qualche utilità.
Quando Moretti viene condannato in primo grado per la strage di Viareggio, con la protervia che lo contraddistingue, Renzi afferma: “Lo rinominerei in Finmeccanica”. Alla scadenza del mandato, però – con Renzi esiliato fuori da palazzo Chigi – il più prudente Gentiloni e il tentennante Padoan, alla luce delle chiaramente modestissime prestazioni del manager, optano per la discontinuità: probabilmente qualcuno ha fatto notare loro che l’incapacità della Finmeccanica morettiana non tanto di produrre buoni apparati ma di venderli nel mondo, e non solo nel settore degli elicotteri bensì in quasi tutti i comparti produttivi, ha drammaticamente ridotto il potenziale industriale di Finmeccanica. Di qui, la nomina di Profumo.
E veniamo a lui, “Mister Arrogance”, come lo chiamava qualcuno nella fase più splendida della sua splendida carriera. Come caratura manageriale, da un Profumo si fanno svariati Moretti. È vero però che neanche lui ha relazioni nel mondo ristretto di coloro che, in giro per i cinque continenti, decidono quali armi acquistare e da chi: in compenso parla bene molte lingue, diversamente dal predecessore, ed è stimatissimo sia nella lobby degli ex McKinsey che in quella dei grandi banchieri.
Al suo attivo, aver preso una banca pubblica prestigiosa ma piccola e strapaesana com’era il Credito Italiano e averne fatto un istituto “troppo grande per fallire”, l’Unicredit. È stato, con Corrado Passera, l’unico banchiere innovatore del sistema italiano degli anni Novanta e Duemila. Diversamente da Passera, che è stato più prudente pur nell’ambizione del riuscito progetto di Intesa (dov’era stato comunque sempre affiancato da un grande regista come Giovanni Bazoli), Profumo a un certo punto ha fatto due scelte coraggiose fino alla temerarietà: comprare la tedesca Hvb e poi l’italiota Capitalia, senza scandagliarne le profondità dei cassetti. Dalle quali, fatalmente, hanno continuato a emergere cadaveri di crediti mal erogati. Una ventina di miliardi di euro di debiti che hanno minacciato seriamente di far saltare l’istituto: che però era, appunto, ormai diventato “troppo grande per fallire”, e infatti non è fallito, e dopo la gestione onesta ma un po’ grigia di una “creatura” di Profumo, Ghizzoni, è oggi in fase di energico rilancio grazie a un altro prescelto da Profumo, Jean Pierre Mustier.
Quanto al dopo-Unicredit, Profumo ha saputo da un lato godersi per un po’ la memorabile liquidazione- 38 milioni – senza sbracciarsi per superare “l’horror vacui” di chi lascia una posizione di immenso potere; poi ha avuto l’intelligenza di accettare qualche incarico minore per rientrare con garbo nel giro – Equita; e infine si è visto recapitare una poltrona cui probabilmente non avrebbe ambito, quella di presidente del moribondo Montepaschi, per la quale ha avuto il buon gusto di non prendere soldi, e che ha utilmente avviato – insieme con l’a.d. Fabrizio Viola – verso l’inevitabile salvataggio pubblico, attuato poi da altre mani, più renziane; e l’ha fatto con ordine.
Perché, ecco: che Profumo abbia, come anche Passera, commesso l’errore – gravissimo per un banchiere – di schierarsi politicamente mettendosi in fila ai gazebo dell’Ulivo, è un fatto. Ma nessuno può dire che debba la sua brillante carriera all’endorsement del Renzi di turno. C’è più studio e competenza in uno starnuto di Profumo che in un discorso di due ore del politico medio. Figuriamoci del politico minimo. Non è, insomma, uno senza mestiere.
Ora, a valle dei disastri compiuti dal renzismo in fatto di nomine, non resta al prossimo governo che commettere quello estremo: rimuovere Profumo. L’hanno messo lì? Lo lascino lavorare: gli diano piuttosto – ed è questo il vero nodo da sciogliere – un mandato nitido: rilanciare Leonardo, possibilmente ridandogli il nome giusto, Finmeccanica, e facendola crescere, e non smantellandola. Ma anche in presenza di un tale mandato, a Profumo occorrerà del tempo per rimettere Finmeccanica sulla giusta rotta, ammesso che ci riesca (e ne ha le potenzialità): in sei mesi, un bestione di quella fatta non lo si distrugge, ma tantomeno lo si salva.