REFERENDUM PER L’AUTONOMIA DI LOMBARDIA E VENETO. Il percorso regionale verso un incremento dell’autonomia. Spunti di riflessione per contestualizzare i referendum consultivi regionali del prossimo autunno.
1. Come insegnava Giovanni Bognetti, “il giurista che vuole conoscere la effettiva realtà dell’ordinamento nel cui ambito egli vive (conoscerla, non manipolarne a fini applicativi il materiale normativo) deve utilizzare all’uopo il metodo dello studio storico“. Se questo è vero, allora la comprensione dell’attuale fenomeno referendario comporta, innanzitutto, esaminare criticamente la storia del nostro regionalismo, almeno a partire dal 1999. In quegli anni, il percorso delle Regioni si muoveva su due vie diverse, una politica e una amministrativa. Sul piano politico, la legge costituzionale 1/1999 introduceva l’elezione diretta del Presidente della Regione, aprendo la strada ad una nuova visibilità della classe politica regionale mentre sul piano amministrativo aveva luogo il cosiddetto “processo Bassanini”, un tentativo ancora oggi importante di ricreare forme di decentramento amministrativo sotto lo slogan del federalismo a costituzione invariata.
Lo sviluppo di questi due fattori genetici del nostro regionalismo ha portato, da un lato, al completamento della riforma costituzionale della competenza legislativa regionale tramite la legge costituzionale 3/2001 (che offriva copertura al decentramento amministrativo operato dalle Leggi Bassanini) e, dall’altro, all’aspirazione dei neoeletti presidenti a guadagnare — oltre alla visibilità del proprio ruolo politico istituzionale come capi riconosciuti dell’ente — il massimo degli spazi di autonomia per le loro scelte fino a rivendicare, sulla scorta di aperture presenti nel nuovo testo costituzionale, ulteriori spazi per la loro azione politico-amministrativa.
Se a questa linea di lavoro si darà forma negli anni duemila (è negli anni 2006/2007 che le Regioni promuovono numerose iniziative volte a dare attuazione all’art. 116 citato), val la pena di ricordare che una delle Regioni più vivaci nella ricerca di innovazioni, la Lombardia, aveva dato tempestiva e creativa attuazione alla devoluzione bassaniniana tramite la legge regionale 1/2000 che — secondo i principi della legge delega 59/97 e in virtù di quanto regolamentato dai relativi decreti attuativi — era finalizzata a riorganizzare le proprie funzioni amministrative e quelle degli enti locali sulla base del principio di sussidiarietà, principio che farà da guida negli anni a venire all’innovazione regionale e sarà una costante dei diversi governi che si susseguiranno.
2. E’ dunque proprio in un’ottica di sussidiarietà volta ad ottenere un incremento dei propri poteri che, già nel 2001, il governo regionale lombardo — in ciò imitato dal Piemonte — progettò di appellarsi al popolo regionale tramite referendum per ottenere dallo Stato una serie di materie ritenute strategiche e per porre in modo nuovo la “questione del Nord”.
La risposta del Governo non si fece attendere e non fu molto incoraggiante per le Regioni. Il 5 dicembre 2000 il presidente del Consiglio dei ministri depositò presso la Corte Costituzionale un ricorso per conflitto di attribuzioni avverso le scelte regionali. In seguito, e specificamente il 5 aprile 2001, la Corte Costituzionale rigetterà l’istanza di sospensiva della deliberazione stessa dando quindi un segnale positivo nei confronti della strategia regionale ma il referendum non poté svolgersi comunque in mancanza di un apparato elettorale in grado di gestirlo, dopo che ancora il Governo aveva rifiutato di accorpare il pronunciamento regionale alle elezioni politiche di quell’anno.
Le elezioni del maggio 2001 si svolsero, dunque, a prescindere dalle richieste regionali mentre l’attenzione della Regione, frustrata nei suoi intenti, si concentrava sul nuovo Titolo V ormai entrato in vigore, cercando nelle nuove norme costituzionali rinnovata linfa per avere risposta alle proprie rivendicazioni. Nascono così varie iniziative innovative supportate dai nuovi poteri legislativi concessi alle Regioni: il buono scuola, poi trasformato in dote, le forme di sperimentazione gestionale in sanità, la riforma della formazione professionale e del lavoro, le riorganizzazioni amministrative tramite una serie di deleghe di funzioni alle province, e molto altro ancora.
3. Conclusasi questa fase, connotata da un impegno a costruire un più coerente apparato amministrativo, ben presto la domanda di autonomia torna a proporsi sul piano politico. La Lombardia, nel 2006, è fra le prime Regioni con Toscana, Piemonte e Veneto a chiedere di nuovo al Governo spazi di autonomia attraverso la valorizzazione dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione, uno strumento potenzialmente efficace ma fragile per sostenere tanta domanda politica e tale resta ancora oggi, tanto da venir impiegato con l’appoggio non di norme costituzionali o legislative di attuazione bensì con il ricorso alla democrazia diretta.
La fragilità dello strumento previsto dalla Costituzione all’articolo 116, terzo comma, emerge con evidenza dalla storia di questi primi tentativi e dal destino che ebbero. Senza stare a ricordarli nel dettaglio, val la pena ricordare che essi si conclusero con un nulla di fatto. Tergiverserà infatti il Governo Prodi mentre, al cambio di maggioranza del 2007, con l’insediamento del Governo Berlusconi, l’attenzione della politica si volge dal 116, terzo comma alla riforma costituzionale e al progetto di devolution, il quale peraltro verrà smentito dal referendum.
3. Vista la fine, anche amara, del tentativo regionale di servirsi delle norme costituzionali per ottenere una maggiore autonomia, non fu difficile dimostrare la sostanziale fragilità dell’articolo in esame in assenza di una sostanziale condivisione da parte del Governo nazionale delle aspirazioni regionali. Infatti, senza chiare opzioni politiche condivise dai due livelli di governo, vano si era rivelato il ricorso agli strumenti costituzionalmente previsti. Questo stato di cose produsse però, in dottrina, molte considerazioni che sono di vivo interesse anche per il presente. Ben oltre le prime reazioni negative, a seguito delle iniziative regionali e delle risposte (o meglio delle non risposte statali), si innescò un dibattito sul senso dell’autonomia, della differenziazione e della specialità, cui si contrapponeva la rivendicazione del senso dell’unità che caratterizza il nostro dettato costituzionale, da conservarsi pur in presenza di rilevanti tendenze centripete.
Si è così assistito alla discussione sul senso del connubio tra unità nazionale e uniformità del regionalismo nostrano, quasi che le due caratteristiche siano due facce della stessa medaglia. Questa assimilazione tra uniformità e unità si rivelerà presto fallace, quantomeno sul piano teorico, soppiantata dalla consapevolezza che solo l’integrazione dinamica tra i due termini consente una costruzione ben ordinata ed efficiente dell’apparato amministrativo multilivello. In altre parole, il tema non dovrebbe essere quanto in astratto spetta all’uno o all’altro dei diversi livelli di governo bensì come, caso per caso, si ripartono le competenze al fine di ottenere il risultato migliore. E se questo comporta una maggiore attenzione alla domanda di autonomia avanzata dai territori, meglio sarebbe stato assecondarla invece che ingabbiarla nelle maglie del perdurante centralismo nostrano.
4. Ora, si può dire che se la ricerca di autonomia proprie delle Regioni più vivaci fin qui si è mossa nell’ottica della dimensione cooperativa del nostro regionalismo, tratto caratteristico anche del vigente dettato costituzionale e della prassi di questi ultimi decenni, essa non scompare anche quando — come in questo momento — le Regioni mostrano di prediligere la contrapposizione con il livello centrale. Gli odierni referendum, infatti, si compongono di tutte e due le facce, quella politica — di taglio fortemente oppositivo — e quella che necessariamente dovrà apparire il giorno dopo la consultazione popolare e che vede Governo e Regioni seduti allo stesso tavolo per misurarsi su quanto di autonomia si potrà da un lato richiedere e dall’altro concedere. Alla fine, la sfida si giocherà tutta qui, nella capacità di negoziazione delle Regioni e dalla lungimiranza del Governo, che dovrà dimostrare di sapere mettere a frutto le lezioni della storia e, come si suol dire, governare la differenziazione invece che demonizzarla.