Si è insediato come commissario di Roma Capitale il prefetto Francesco Paolo Tronca; è arrivato dalla prefettura di Milano, giusto poche ore dopo che si è chiuso l’Expo di cui è stato garante insieme con il commissario unico delegato del Governo, Giuseppe Sala, che è in predicato per essere candidato alla poltrona di sindaco di Milano. Tronca rimarrà sino alle prossime elezioni amministrative, la cui tornata si svolgerà nella primavera del 2016 e che vedrà andare al voto, oltre a Roma e a Milano, anche Napoli, Torino, Bologna, Cagliari e, nell’insieme, ben 1306 comuni di varia grandezza.
Per Roma e per Milano è manifesta la difficoltà di tutte le forze politiche di candidare alla poltrona di sindaco una persona credibile che provenga dalle proprie fila. Infatti, il sistema politico nazionale, che dovrebbe selezionare il personale per le cariche pubbliche, sembra non avere nomi da proporre.
Non so quanti si sono accorti del fatto che da un po’ di tempo i partiti incontrano serie difficoltà nell’assolvere a questo loro compito. Ciò spiegherebbe questo ripiegamento su magistrati, prefetti e commissari straordinari.
L’impressione che se ne trae è che non si tratti più di un sistema politico in difficoltà, ma di un sistema politico che si è dissolto e del quale residuano gruppi oligarchici, in alcuni casi con caratura nazionale, in altri con un ambito territoriale più limitato. Nell’un caso, come nell’altro, mancherebbe il disegno razionale che circa un secolo fa aveva formulato Max Weber di un governo politico dello Stato in condizione di far funzionare organi, istituzioni e amministrazioni, grazie alla presenza di un ampio e competente personale politico, composto da gruppi dirigenti e da leader autorevoli, stimati dal popolo.
Prendiamo il M5s, tutto proteso verso una democrazia digitale, nella quale è candidato chi clicca di più “mi piace” sul proprio nome, che rifiuta l’appellativo di partito e che non appena si consolida una struttura di direzione o una figura di prestigio, scatena un putiferio che — secondo la migliore tradizione politica italiana — azzera ogni possibilità di comprendere l’organizzazione del movimento. A Roma potrebbero sfoderare Alessandro Di Battista, che pure ha una certa credibilità, ma la purezza del movimento ne sarebbe inquinata; ed ecco allora che sarà scelto qualche illustre sconosciuto, magari assicurando la sconfitta del M5s perché così non ci si compromette con Roma, che è un caso difficile, e si può continuare a gridare in Consiglio dai banchi dell’opposizione, coprendo il vuoto di personale politico e di elaborazione.
Che dire di Berlusconi che trova sempre il modo per dividere il centrodestra, promettendo che al suo rientro tutto tornerà a posto e, nel frattempo, prospetta per Milano un nome fuori dai partiti e di prestigio; è evidente che tra quelli che gli sono rimasti in Lombardia, anche tra coloro che hanno ricoperto cariche ministeriali, nessuno appare essere credibile e di prestigio.
E Renzi? Per Milano, spera che Sala gli dica di sì; e per Roma e Napoli deve cercare di cavare fuori dal cappello qualche “coniglio”, ma al momento è il deserto.
Non è detto che non riesca; d’altra parte la sua cifra più importante sinora è stata la fortuna e speriamo, per tutti noi, che duri, ma la vicenda di questi giorni ci porta a rivedere una serie di dati e a dire che non si intravvede un Partito democratico di Renzi e che, perciò, non si intravvede un Pd tout court.
Nel 2014 in Emilia Romagna, roccaforte storica del Pd, va a votare appena il 37,67% degli elettori; nel 2015, a causa dei brogli delle primarie, il Pd di Renzi perde la Liguria, dove Berlusconi per non creargli problemi aveva candidato il suo portavoce, Giovanni Toti, che tutto avrebbe voluto fare tranne che il presidente della Regione.
Inoltre, nulla accomuna il segretario Renzi con i diversi governatori delle regioni amministrate dal Pd, a cominciare da Crocetta che ormai sembra andare per la sua via, per continuare con De Luca, Emiliano, Zingaretti, Rossi e Chiamparino che sono sempre andati per la loro via.
Sarà anche per questo che in area governativa, dopo avere fatto fuori i presidenti delle Province e i senatori direttamente eletti, perché — a dire degli esperti, sostenitori di queste riforme — “il Paese non avrebbe potuto permettersi una classe politica così ampia”, si sta avanzando l’idea di Regioni senza elezioni, rette, alla stregua di grandi aziende o agenzie territoriali, da direttori generali e funzionari governativi.
Ma se a sindaco sono candidati ex commissari straordinari, se i presidenti delle province non sono più eletti direttamente, se le Regioni, per evitare il fenomeno dei governatori dissenzienti, sono private anch’esse dell’elettività, se l’elezione della rappresentanza parlamentare è trasformata nell’investitura di “un uomo solo al comando” (come accadrà con l’Italicum), è giocoforza che un sistema politico, pensato come un insieme di partiti radicati nel territorio che si relaziona con i propri militanti e i propri elettori per proporre — come recita la Costituzione — “una politica nazionale”, non possa esistere; anzi, la sua formazione è volutamente evitata e accuratamente impedita, anche se altri dovessero tentare di farlo.
È in questo modo che la nostra non è più una democrazia, ma qualcosa che conserva solo qualche vestigia della vecchia democrazia fatta di partiti ed elezioni; non siamo ancora ai “ludi cartacei”, ma neppure ne siamo lontani.
Ma attenzione. La storia ci insegna che chi manipola il consenso e disattende le aspettative popolari, prima o poi, è costretto a renderne conto e non basterà a salvarlo internet e neppure gli scongiuri contro i gufi.