Alla fine, ciò che diciamo da settimane ha ottenuto il crisma dell’ufficialità. Il Fondo monetario internazionale ha infatti lanciato l’allarme sulla tenuta dei conti pubblici americani e lo ha fatto ricordando che Washington ha il deficit pubblico maggiore di tutte le maggiori economie del mondo (-10,8% del Pil), Giappone disastrato compreso (-10%) e al pari dell’Irlanda in default (-10,8%).
Un segnale preoccupante per il presidente Barack Obama, che vede sotto osservazione la tenuta dei conti pubblici, un fatto fino a oggi impensabile e che Paul Volcker, l’ex governatore della Fed e advisor della Casa Bianca, aveva inutilmente previsto dopo i disastri del sistema finanziario. Certo, occorre ammettere che è il quadro generale a non essere roseo. Il Fmi prevede infatti che il rapporto medio del debito delle economie avanzate sarà superiore alla soglia del 100% del Pil per la prima volta dopo gli anni del secondo Dopoguerra: il debito raggiungerà infatti il picco del 107% del Pil nel 2016, 34 punti percentuali sopra i livelli toccati prima della crisi finanziaria globale.
Un segnale che con l’ultimo aumento dei tassi da parte della Bce non lascia proprio tranquilli, anche perché la conferma che l’inflazione che Trichet vuole combattere sia tutta importata e non creata a livello domestico grazie alla crescita (quindi alzare i tassi serve solo a dimezzare il già magro potere d’acquisto dei salari), ce l’ha fornita l’Inghilterra, che ieri ha visto il tasso inflattivo scendere dal 4,4% al 4%, spazzando via l’ipotesi di rialzo dei tassi da parte della Bank of England. Ma torniamo agli Usa, il grande malato.
Il fatto che Washington sia alle soglie del default è certificato da due dati: il dollaro debolissimo a fronte di un euro che non sconta minimamente l’acuirsi della crisi del debito sovrano dopo il bailout richiesto dal Portogallo e la guerra del rating fatta ripartire a freddo da Ficth, lanciando outlook completamente sballati rispetto ai fondamentali e unicamente mirati a una diversa gestione della politica estera Usa, ovvero finanziarizzare i conflitti puntando a delegittimare i concorrenti agli occhi degli investitori al fine di permettere al Tesoro di piazzare i suoi 1,5 trilioni di T-Bills.
Fitch ha infatti rivisto al ribasso le prospettive sul debito della Cina in valuta nazionale, oggi ad “AA-”, da “stabili” a “negative”. La decisione è stata adottata sulla scia delle preoccupazioni riguardo un potenziale, devastante incremento del credito facile capace di destabilizzare l’economia di Pechino. Strano però: il downgrade è stato deciso nonostante la Cina detenga le più grandi riserve del mondo in valute estere, pari a circa 2.800 miliardi di dollari, un fatto che la rende quasi invulnerabile agli shock esterni. Ma, sottolinea l’agenzia, «la forte crescita del credito, il rapido incremento dei prezzi immobiliari e la recente emersione di pressioni inflazionistiche hanno aumentato i rischi per la stabilità macrofinanziaria». Mah!?
Il credito facile sta subendo da mesi uno squeeze di notevole entità da parte della Banca centrale, l’inflazione è comunque sotto livello di guardia e ha ricevuto in risposta già quattro aumenti dei tassi e la bolla immobiliare è certo presente, ma al momento non si configura come rischio imminente: perché, quindi, tanta solerzia da parte di Fitch? Guerra finanziaria. Come spiegare, altrimenti, un atteggiamento da maestrino super-severo verso Pechino mentre a Washington il deficit pubblico Usa si attesta a 188 miliardi di dollari nel mese di marzo, come conferma il Tesoro?
Nella prima metà di quest’anno, il deficit pubblico complessivo è al livello record di 829 miliardi di dollari, il 16% in più rispetto ai 717 miliardi di dollari dello stesso periodo del 2010: lo ha certificato ieri anche il Fmi, cosa vogliono di più? E poi, non sarà che lo status cinese di principale detentore (insieme al Giappone) di debito Usa, abbia svegliato in Fitch istinti di avvertimento? Anche perché, ad aver voglia di fare le pulci ai conti, Fitch avrebbe molto da fare guardando nel cortile di casa.
Qualche esempio? L’Indice Ibd/Tipp sull’ottimismo economico misura il livello di fiducia del consumatore e il suo ottimismo in relazione all’economia. L’ultima rilevazione era a 43, le previsioni per l’attuale parlavano di 45 e, invece, siamo a quota 40,80. Attenzione, si tratta di un indicatore chiave, in grado di anticipare la spesa dei consumatori, che rappresenta una quota fondamentale nell’attività economica totale. E che dire della dichiarazione di Budget mensile, nota anche come Budget del Tesoro, che misura la differenza di valore tra le entrate del governo federale e di spesa nel corso di un dato mese (il reddito netto delle spese)? Ultimo dato -222,50 miliardi, previsione per l’attuale 157,50 miliardi e dato attuale a quota -188,20 miliardi: come sapete, un dato negativo segnala un deficit di bilancio, mentre un dato positivo indica un’eccedenza. Anche in questo caso, previsioni errate per eccesso.
Eppure, nonostante anche il Fmi chieda tagli e austerity, Usa e Giappone sono gli unici due paesi che stanno dando vita a un aumento della spesa pubblica: la scelta di Tokyo, a mio avviso comunque suicida, è giustificata dalla necessità di far fronte alla ricostruzione post-terremoto, negli Usa invece si scontano ancora gli effetti del diluvio di denaro a costo zero posto in essere con il Qe2 voluto dal buon Ben Bernanke. Ma si sa, in America sono bravissimi a fare la morale agli altri, mentre lo sporco di casa finisce sempre sotto il tappeto: peccato che a lungo andare, quando il tappeto diventa alto due metri, il giochino svanisce. Basta vedere la composizione del paniere del Bureau of Labor Statistics per capire che il tasso di inflazione Usa che ci viene comunicato è spesso e volentieri manomesso.
Con il prezzo degli immobili che pesa per il 42%, vi stupisce il fatto che calino le valutazioni per le case? L’America è in piena guerra economico-finanziaria con il mondo e ogni arma è ritenuta valida: Kissinger diceva che essere nemici degli Usa è pericoloso, ma essergli amici è mortale. Converrà tenerne conto, perché la potenza di fuoco che Washington sta per mettere in campo è spaventosa. Lo dimostra il report sui metalli pubblicato due giorni fa da Goldman Sachs, di fatto la succursale che conta del Tesoro Usa, capace di far crollare il Brent e le commodities, soprattutto il rame, dopo aver rivisto le stime al ribasso: capite, basta che il centro del potere decida che i prezzi devono scendere che la profezia si autoavvera.
Certo, Goldman lo ha fatto per il bene dei suoi clienti, consigliandoli di gettarsi sui profitti fatti finora – non da poco – evitando rischi, ma il fatto che la situazione sia grave lo ha dimostrato la giornata di ieri, con oro, argento e petrolio tutti in risalita nonostante il diktat di Goldman Sachs e Bank of America che consigliava ai clienti di gettarsi sul crude perché potrebbe toccare i 160 dollari al barile. Ma come, i guru hanno sbagliato la previsione?
No, semplicemente quel report era un messaggio sottobanco non tanto ai mercati quanto alla Fed affinché si metta in testa che il Qe3 deve essere comunque fatto, magari in altra forma per non dare nell’occhio: il dollaro non è debole perché l’Europa alza i tassi e gli Usa no, è debole perché gli investitori hanno perso fiducia nel biglietto verde. Come spiegare altrimenti il fatto che ieri, appena aperte le contrattazioni a Wall Street, sul sito di Cnbc sia apparsa un’intervista con il guru degli investimenti e vice-presidente di Blackstone Advisory Services, Byron Wien, secondo cui «il mercato azionario Usa potrebbe vivere un’estate da incubo dopo la fine del Qe2 in giugno e, siccome non penso ci sarà un Qe3, il mercato sarà estremamente vulnerabile».
Come dire, la Fed ci pensi bene. D’altronde, di fronte a un Paese con un deficit di budget di 1,5 trilioni di dollari che si entusiasma e parla di accordo storico per tagli da 38 miliardi, viene da ridere. Peccato che da ridere ci sia davvero poco: l’Europa, divisa come mai, deve mettersi in testa di essere in guerra economica. Altrimenti, rischia di rendersene conto quando sarà troppo tardi: da giorni i grandi soloni dell’economia e della finanza Usa parlano soltanto di rischio di contagio della crisi del debito alla Spagna, nei fatti anticipando le mosse a orologerie delle agenzie di rating.
Top-down, questa la definizione usata negli Usa per dimostrare che il debito spagnolo, combinato con la debolezza del settore privato, che quindi non aiuta quello pubblico, non appare affatto gestibile nel medio termine. Fossi spagnolo, tremerei.
P.S. Nel momento in cui scrivo queste righe di post scriptum, il voto finale alla Camera sul cosiddetto “processo breve” non è ancora avvenuto, in compenso fuori da Montecitorio il popolo viola-grillino-Idv e chi più ne ha, più ne metta da stamattina (ieri, ndr) protestava con veemenza (ma, domanda legittima, questa gente non lavora al pari di quei tifosi che spendono le giornate al campi di allenamento della loro squadra del cuore e si fanno riprendere da Sky mentre salutano la mamma?): non so come è andata a finire, se è passato, non è passato, se Napolitano ha già annunciato che lo casserà. E poco mi importa, francamente.
Una cosa la so: ieri lo spread tra titolo decennale italiano e Bund tedesco era sotto i 120 punti base e il nostro cds sovrano a 5 anni è sceso di un altro 5,48% a quota 125.80 punti base, segnale che chi mette i soldi nel nostro debito e scommette sul nostro sistema-Paese ha fiducia nell’Italia e nel suo governo (con i mille limiti che ha e con quanto di più potrebbe e dovrebbe fare per l’economia). Quindi, al netto delle mie diverse abitudini private e pubbliche, Dio mi conservi un premier peccatore, monopolista e un po’ guascone che però ha tenuto in piedi il Paese con il terzo peggior debito del mondo nel pieno della peggiore crisi dal 1929: i partner europei si tengano pure i loro impettiti, formali, eleganti, integerrimi, puri, virginali ed educatissimi leader. Ma anche i loro default, i loro spreads, i loro cds e i loro rating da terzo mondo.