Il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, inizia il secondo giro di consultazioni al Quirinale, che si chiuderanno alle 18,30 con la delegazione del M5s. Domani toccherà al presidente emerito Napolitano e ai presidenti di Camera e Senato, Fico e Alberti Casellati. In questa fase delicata Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che non si risparmiano frecciate e trovano il tempo per concordare alcune nomine (oggi il leghista Nicola Molteni dovrebbe essere eletto alla presidenza della Commissione speciale di Montecitorio), sembrano aspettare l’esito delle elezioni regionali, in programma il 22 e il 29 aprile, più che ricercare un accordo che possa assicurare la formazione di un nuovo governo. Intanto, però, entro fine mese l’Italia dovrà inviare il Def a Bruxelles e sul tappeto restano problemi (dalle clausole di salvaguardia al contesto internazionale in via di peggioramento) che potrebbero indurre a scelte più veloci. “No, il tempo non manca – sottolinea Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma -, l’Europa e i mercati non possono metterci fretta. Quanto al Def, meglio che a scriverlo sia il nuovo governo. L’importante è mandare un messaggio forte e rassicurante, spiegando che non si vuole sforare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil e che si vuole attuare una seria spending review: taglio degli sprechi e utilizzo di questi risparmi, veri, per rilanciare gli investimenti pubblici”.
Le consultazioni al Colle non sembrano essere vicine al traguardo, mentre Salvini e Di Maio sembrano oggi più interessati alle elezioni locali in Friuli-Venezia Giulia e Molise, in programma il 22 e il 29 aprile. Ma a fine mese bisogna inviare il Def a Bruxelles. Non conviene che a questo punto lo scriva il governo uscente?
Innanzitutto, una piccola osservazione lessicale. Più che di “governo uscente”, io parlerei di “governo uscito”. Detto questo, sarebbe davvero una scelta scellerata se a scrivere il Def fosse proprio il “governo uscito”.
Perché?
Per diversi motivi. Innanzitutto, per una ragione programmatica: i Def, cioè i documenti che segnano la traiettoria e lo scenario a 4-5 anni dell’economia e dei conti pubblici, più passa il tempo della legislatura più perdono incidenza. Il primo Def è importante, perché su quelle misure il governo sa di poter impegnare se stesso. Il Def del quinto anno, invece, è il più irrilevante.
Il secondo motivo?
In Europa altri governi, penso al caso tedesco, hanno preso più tempo, non vedo problemi di fretta. Il Def va a incidere sulla futura legge di Bilancio, quindi presentarlo anche a maggio o giugno non cambia molto la sostanza delle cose. E poi l’Europa e i mercati sono più preoccupati su quale tipo di coalizione andrà a guidare il Paese.
Sì, ma l’Europa ci tiene sempre sotto stretta sorveglianza…
In questo momento – ed è la terza ragione che sconsiglia al governo Gentiloni di presentare il Def – la Ue è molto indecisa sul da farsi, non ha la voglia né la capacità di chiederci di fare presto. Il mio auspicio è che Bruxelles lasci maturare con calma il vino italiano, senza agitare troppo la bottiglia, il che renderebbe tutto più complicato.
Qualora il governo Gentiloni arrivasse a varare un mini-Def, a politiche e saldi invariati, visto che le Commissioni speciali sono costituite e il Parlamento è perfettamente funzionante, non pensa che con le nuove maggioranze insediate alla Camera e al Senato il Def, durante l’iter parlamentare, potrà cambiare faccia, trasformarsi in un documento di rottura rispetto a quelli precedenti?
Questa è una certezza. Ma, proprio per questo motivo, se il “governo uscito” dovesse forzare la mano, quale vantaggio ne trarrebbe? In un momento delicato, che vede il presidente della Repubblica impegnato a ricomporre, perché gettare benzina sul fuoco?
Gli economisti sono divisi: c’è chi dice che l’Italia ha tempo fino all’autunno e c’è invece chi sostiene che non ci sono più margini, presto i mercati perderanno la pazienza e per i nostri conti pubblici saranno guai. Lei che ne pensa?
I mercati ora sono interessati a sapere chi governerà. Prima vogliono certezze sulla coalizione, poi sul Def. E, lo ripeto, un Def che non abbia alle spalle una maggioranza che lo marchi nella sua struttura sarebbe un documento svilito in partenza.
Con le nuove maggioranze sovraniste presenti in Parlamento e con un governo a trazione M5s e/o Lega, non c’è il rischio di sforare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil?
Il rischio c’è, ma la mia scommessa è che una coalizione sovranista si impegnerà a lanciare un messaggio su questo benedetto numero che non dia adito a preoccupazioni né allarmi.
In che senso?
È probabile che si darà vita a un Def abbastanza rivoluzionario, ma con un deficit al 3%, senza dinamiche verso il pareggio di bilancio, per evitare misure recessive e di austerity, ma stabile per tutta la legislatura, senza mai superare il tetto. Questo sarebbe un segnale forte, una decisione utile per il Paese e un messaggio tranquillizzante per l’Europa.
In termini concreti cosa significa?
Significa politiche fiscali non restrittive, che non tarpino le ali a una ripresa finora ridicola; significa fare deficit solo con una seria spending review, realizzata con risparmi veri derivanti dal taglio degli sprechi e non da tagli lineari di spesa come fatto negli ultimi anni; significa, infine, dirottare questi risparmi per rilanciare gli investimenti pubblici. Insomma, una spesa pubblica “buona”, di qualità.
Intanto dobbiamo affrontare diversi ostacoli, a partire dalle clausole di salvaguardia, che sono una tagliola pericolosa sulla via della ripresa, non crede?
Non sono ostacoli. Se un governo forte e sostenuto varasse le misure di cui parlavo prima e coerentemente decidesse di non importare il Fiscal compact nelle direttive europee, le clausole di salvaguardia crollerebbero.
Sulle prospettive di crescita italiane si profilano diverse nubi: la produzione industriale rallenta, la guerra sui dazi si inasprisce, la Germania frena, i tassi torneranno a salire. L’economia italiana è pronta ad affrontare nuove turbolenze?
Se non facciamo diligentemente i nostri compiti a casa, saremo sempre esposti ai venti contrari. Finché commercio mondiale e tassi sono stati favorevoli, abbiamo chiuso un occhio sulla necessità di fare le riforme. Ora il momento sta arrivando: in questa pausa di riflessione nella nuova costruzione europea è necessario rimettere in sesto la nostra economia. Non servono riforme assurde, ma una spending review seria, il cui obiettivo non sia ridurre la presenza dello Stato, ma far sì che aumenti la qualità della spesa pubblica.
E se invece si dovesse tornare al voto?
Correremmo dei rischi enormi. Sarebbe un segnale davvero deludente per l’Europa e per le nostre giovani generazioni. Si è creata una grande aspettativa, ora tocca alla classe politica trovare i giusti compromessi e dimostrare che non c’è mancanza d’attenzione verso i problemi veri del Paese. Se non si dovesse arrivare a un nuovo governo e si tornasse alla urne con la stessa legge elettorale, sarebbe un messaggio devastante. Come si può dire all’Europa e al Paese: non ce l’abbiamo fatta a trovare un accordo? A quel punto, soprattutto nel breve periodo, saremmo esposti a forti pressioni e tensioni. Ma resto ottimista. La posta in gioco è troppo alta: un accordo con pochi compromessi sulle cose urgenti da fare si troverà. E così si potrà rimttere in moto anche il motore della nostra economia.
(Marco Biscella)