Mingardi, l’articolo di Graziano Tarantini mette l’accento sul tema della crisi di fiducia, definendola come «materia prima del mercato». È d’accordo?
La fiducia, più che «materia prima» del mercato, è il risultato del fatto che gli attori operano in una cornice giuridica e politica appropriata. La fiducia è non solo precondizione, ma anche effetto, di un dato che nel suo articolo, bello e utile, Graziano Tarantini individua come cruciale. «Ci siamo trovati di fronte al fallimento di una realtà che solo nominalmente poteva essere definita mercato», ha scritto Tarantini specificando che «quello vero è fatto da soggetti che in totale libertà si scambiano beni e servizi dentro un quadro di regole soprattutto sotto il profilo della trasparenza dal lato dell’offerta».
La trasparenza non è un ideale astratto, ma al contrario riguarda la capacità degli attori di mercato di avere accesso a quella che sì, soprattutto nel mondo della finanza, definirei la “materia prima”: cioè l’informazione. Il mercato ancora oggi, come dimostra la strepitosa volatilità che si osserva nelle borse, è alla disperata ricerca di informazioni.
Chi e come deve ripristinare la fiducia? Può farlo una nuova finanza su regole riformulate? O forse lo Stato?
L’informazione è mancata in passato, nonostante la regolamentazione, e non “perché” la regolamentazione non ci fosse. La trasparenza dei bilanci delle grande banche d’affari non è stata assicurata da regole e banche centrali ieri, perché dovrebbe esserlo domani?Ancora nei momenti più duri della crisi, l’impressione è stata perfino quella che si cercasse consapevolmente di non “tramortire” il mercato con troppe informazioni, credendo che così sarebbe stato possibile evitare l’effetto panico.
Solo una maggiore trasparenza, quindi la possibilità di accedere a più informazione, può oliare i meccanismi di mercato. In sua assenza, le dinamiche cui continueremo ad assistere restano quelle di questi giorni.
Tarantini ha scritto: «È opportuno che lo Stato torni al più presto a fare il regolatore, possibilmente in modo non invasivo». In che modo? È auspicabile l’intervento dello Stato nel capitale delle banche? E per quanto riguarda le imprese?
Quanto ha funzionato l’intervento dello Stato, anche solo in questa crisi? Ha “rassicurato” i mercati? Forse, ma siamo di nuovo a minimi di borsa vicinissimi a quelli di due settimane fa, in un contesto nel quale la mano pubblica ha dato tutte le zampate che ha potuto. Credo che i banchieri conoscano i loro ratios patrimoniali meglio degli osservatori, anche dei più avvertiti. E del resto in Italia non abbiamo molti banchieri che siano “ideologicamente” avversi all’intervento pubblico, tutt’altro. Ma in compenso credo che, una volta nella vita, stiamo dando un esempio positivo. UniCredit è stata molto criticata, da una stampa cui non pareva vero, dopo averne subito per anni gli atteggiamenti di uomo di mercato e averli interpretati come arroganza nei confronti del sistema, di poter dire “il re è nudo” davanti ad Alessandro Profumo. Eppure UniCredit si è ricapitalizzata sul mercato, trovando capitali senza bisogno di andarli a chiedere col cappello in mano al Governo.
Parallelamente, il “piano” messo a punto da Tremonti e Draghi è meno invasivo di altri, ed è parso meno dettato dal panico.
Quanto alle imprese, è ovvio che le ripercussioni sull’economia reale saranno pesanti. Per alleviarle, però, più che agire sulle banche sarebbe saggio mettere mano a riforme strutturali, che rendano la vita un po’ più facile alle imprese su altri fronti.
Tarantini, a proposito del mercato, ha scritto: «Quello vero è fatto da soggetti che in totale libertà si scambiano beni e servizi dentro un quadro di regole soprattutto sotto il profilo della trasparenza dal lato dell’offerta. Ciò implica la creazione di condizioni di adeguata consapevolezza per l’acquirente senza l’utopia dell’eliminazione del rischio da più parti oggi irresponsabilmente invocata». Che ne pensa?
Penso che Tarantini abbia ragione. L’atteggiamento dell’opinione pubblica è più o meno questo. Ad ogni naufragio, invoca leggi per abolire le navi. Ma il rischio è una componente importante della vita prima che dell’economia, così come pure il fallimento è una componente essenziale della vita, prima che dell’economia. Viviamo in società che pretende di esorcizzare il rischio fino al limite estremo. In finanza, questo diventa la demenziale richiesta del più dei risparmiatori che vorrebbero sempre guadagnare quando le cose vanno bene, e non perdere quando le cose fanno male.
Siccome la terra è rotonda, semplicemente non si può. Questo è un grande problema culturale. Se ci fosse più “alfabetizzazione economica” (non parlo di una approfondita conoscenza delle differenze che ci sono fra Ricardo e Smith, ma di banale conoscenza dei principi basilari di questa disciplina), forse saremmo tutti non più consapevoli di ciò che sta avvenendo (perché anche gli economisti hanno incassato sonore sconfitte, sulle loro capacità non dico di prevedere ma di “leggere” la crisi), ma perlomeno delle controindicazioni più evidenti delle mosse che gli Stati stanno mettendo in campo. Invece, regna la paura e l’imperativo è “agire”. Il medico prova a curare la malattia, non essendo certo di quale sia la causa del male, e non sapendo neppure in che misura, allo sviluppo del male, hanno contribuito le cure che egli stesso aveva somministrato in precedenza.
Le imprese italiane chiedono aiuti, di varia natura, per superare l’impatto della crisi sull’economia reale. Superata ormai la soglia dell’intervento pubblico a favore delle banche, crede che sia necessario abbattere anche questo tabù? Insomma, è tornato Keynes?
Nel dibattito attuale si fa grande confusione, e la confusione è alimentata, oltre che da economisti che hanno smarrito la bussola e hanno cominciato a proporre soluzioni diametralmente opposte a quelle che sostenevano fino a poche settimane fa, dal continuo chiacchiericcio di politici e rappresentanti di imprenditori e lavoratori. La crisi attuale è complessa. È passato il “cigno nero”. Sarebbe necessaria una profonda riflessione su alcune questioni fondamentali – la dispersione dell’informazione, la dimensione ottimale di alcune imprese finanziarie rispetto alla loro capacità di assumersi rischi di un certo tipo, l’esuberanza non troppo razionale della politica monetaria americana degli anni scorsi – ma è resa impossibile dal fatto che l’opinione pubblica informata, anziché tentare di “calmare” la società e produrre riflessioni ponderate, è la prima a gettare benzina sul fuoco. Tutto questo dibattito avviene in una dimensione “emergenziale” che è assolutamente inadeguata a pensare alle cause scatenanti di una crisi così grave. Per questo, possiamo fare una predizione a cuore leggero: quasi tutto quanto viene fatto, risulterà sbagliato. Perché, einaudianamente, bisognerebbe conoscere per deliberare.
Cosa dire più nello specifico delle imprese che chiedono un intervento dello Stato?
La richiesta di aiuto delle imprese è figlia dei cordoni della borsa aperti alle banche. “Perché i banchieri sì, e noi no?”, si chiedono i nostri imprenditori, che sono piuttosto vocati a fare i vassalli del potere pubblico, in cambio di un piatto più o meno sostanzioso di lenticchie. Il capitalismo è un sistema “guadagna o perdi”. Gli imprenditori legittimamente vogliono guadagnarci e basta: ma questo loro atteggiamento contribuisce a spiegare, e a giustificare, la diffusa ostilità nei loro confronti ancora presente in questo Paese. Siamo tutti capaci a guadagnare col portafoglio nostro, e a perdere col portafoglio dei contribuenti.
Quale crede sia il pericolo maggiore, in questa fase?
Il pericolo maggiore sta nella nostra assenza di memoria. Credo che le cose di maggiore intelligenza e buon senso le abbia dette Sergio Siglienti in una intervista a La Stampa. Ricordatevi che cos’erano le banche di Stato. Ricordatevi cos’era l’imprenditoria di Stato. Ricordiamoci che quelli erano gli anni della corruzione generalizzata, del voto di scambio, del clientelismo fatto sistema. Gli imprenditori pensano di intascare la pagnotta senza pagare pegno. Sbagliano, non hanno memoria storica. Chi prende l’obolo del re canta la canzone del re.
Non è tornato Keynes: si fa confusione anche su quello. Per ora non abbiamo visto politiche “keynesiane” da parte dei governi. Anche qui, però, gioverebbe giocare la carta del paragone col ’29 fino in fondo. Allora, le politiche keynesiane non hanno risolto la crisi. L’hanno prolungata, e la depressione è stata risolta solo dalla guerra. Certo, ognuno è libero di augurarsi il futuro che preferisce.