Presidente Mazzotta, nel dibattito che abbiamo lanciato su il sussidiario.net sono due i fattori che abbiamo proposto ai nostri lettori per capire le ragioni profonde della crisi: venir meno della fiducia e rischi legati all’intervento dello Stato. Qual è la sua opinione?
Le cause sono ormai note. Il baricentro della turbolenza è stato tutto americano. Gli Usa hanno mantenuto per quasi dieci anni un robusto squilibrio di bilancia commerciale, alimentato e in qualche maniera finanziato da una manipolazione della politica monetaria e dell’attività di credito. Hanno conosciuto una moneta troppo lassista e un’inflazione di credito vera e propria che ha prodotto effetti redistributivi negativi.
Graziano Tarantini ha scritto che «ci siamo trovati di fronte al fallimento di una realtà che solo nominalmente poteva essere definita mercato».
Le cause vere di questo squilibrio non sono in un eccesso di mercato o di libertà economica, ma nascono da una forte manipolazione delle sue regole. Col risultato che le élites finanziarie si sono appropriate di una quota di ricchezza nazionale a scapito di altre categorie sociali. È chiaro che l’effetto di tutto questo è stato il diffondersi dell’incertezza, della preoccupazione, della paura, che può diventare anche panico, e quindi genera nei confronti delle regole e delle istituzioni di mercato una posizione di sfiducia. La persona, sia essa cliente, operatore o imprenditore, ha visto venir meno regole rispettate e un sistema equilibrato di scambi.
Come si può ricostruire questo patto sociale positivo basato sulla fiducia reciproca? Dei risparmiatori verso le banche e interno al mondo bancario stesso.
Farei due considerazioni. La prima: in una economia di mercato devono funzionare le regole di mercato. Che in questo caso sono state ampiamente manipolate. E gli effetti sono stati devastanti. La seconda: le regole di mercato non sono asettiche, perché l’economia non è come la fisica e non è come le scienze esatte, ma è fondata sulla persona e sul suo comportamento. E il sistema funziona non solo quando le regole proprie della concorrenza e dello scambio sono rispettate, ma anche quando gli operatori si muovono sulla base di un codice etico e di una deontologia professionale che rispettano regole non scritte.
Sull’intervento dello Stato c’è oggi quasi totale unanimità. Nella sua recente intervista a Il Sole 24 Ore ha citato due esempi virtuosi, Germania e Francia. Che cosa noi non dovremmo fare?
In Francia e Germania sono intervenuti gli Stati in banche che vanno bene e non che stanno fallendo, proprio per rafforzare il patrimonio e consentire che questi intermediari non debbano strozzare l’attività di impiego e di credito. L’intervento deve essere temporaneo: non siamo davanti a un fallimento dell’economia di mercato, sono i suoi effetti negativi che devono essere corretti con l’intervento straordinario dell’autorità pubblica.
Si dice sempre che l’Italia è il paese in cui le soluzioni provvisorie diventano definitive…
Se l’intervento pubblico, invece di esser teso a ripristinare le regole dell’economia libera, intende sostituirla, la società passerà da un’economia di mercato tradita ad un’economia di mercato burocratizzata. Ma sarebbe il passaggio da un’economia libera ad una amministrata: un grave passo indietro. Vede, una crisi come questa segna sempre un passaggio d’epoca. Ma le caratteristiche dell’epoca che verrà sono definite dalla natura degli interventi che vengono messi in moto ora.
Quanto può influire l’assetto della governance bancaria nel ristabilimento di un clima e di condizioni di fiducia?
Vale sempre, in definitiva, la qualità delle persone e il loro comportamento. Ogni sistema di regole è sempre relativo; dipende dalla cultura prevalente che informa l’attività degli uomini che governano le strutture.
Le imprese chiedono aiuti diretti. Che ne pensa?
Sostenere l’attività delle banche serve a far avere alle imprese il credito di cui hanno bisogno. È come se uno guardasse da una sponda verso l’altra sponda e dicesse: perché mettete i soldi per costruire un ponte? Dateli direttamente a me. Ma in realtà è proprio un ponte che serve, no?
Le banche devono imparare qualcosa da questa crisi?
Se arriva un cliente e lo si mette in un computer è difficile che esca un giudizio utile. Il mestiere di erogare il credito richiede la capacità di misurarlo, cioè di saper giudicare gli uomini e non soltanto i numeri di un conto o di un bilancio. Oggi si dice: “come mai una volta succedeva che le banche davano fiducia anche indipendentemente dalle garanzie reali?” Se un banchiere ha bisogno delle garanzie reali è perché non è in grado di misurare il rischio. E se non è in grado di farlo, vuol dire che non sa valutare le persone, le imprese e i progetti. Riconosco che non è un mestiere facile.